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Nome immaginario di una città isolana, Pòju Luàdu ha la concretezza storica di una civiltà che ha fatto male i conti con la modernità. Sulle carte è solo Pòju, che nella lingua del luogo significa “pozza d’acqua, tonfano” - segno di un’antica simbiosi con la natura. Però, dopo i danni della modernità, il sarcasmo dei suoi abitanti, possessori di una lingua remota, ha dovuto aggiungere la qualifica luàdu: “avvelenato”. Ciro, ormai vecchio e vedovo, ha deciso di tornare nella nativa Pòju, dopo una vita da giramondo, ribelle irriducibile, generoso e colto idealista. Abita una casa che non riesce a finire, al limite di un dirupo, prossima al degrado della periferia cittadina. Fa vita ritirata, limitato dalla flebite a una gamba: legge, scrive, ha pochi contatti. Al telefono sente i pochi familiari tutti lontani, sul “Continente” (Gala, nipote allevata da Ciro e dalla moglie Lucia, o Gervasa, nipote perbenista che contesta le scelte dello zio). Il passato abita le sue giornate, ma Ciro non ha smesso di voler provare la vita spinto da un profondo senso d’indipendenza. In una torrida giornata estiva - in fondo l’altopiano in fiamme - Ciro salva un cane randagio ferito e braccato da una banda di ragazzini che hanno eletto a territorio di scorribande le discariche della “Casbah” cittadina. Sull’evolversi di questa minima epica quotidiana - le cure per il cane, i tentativi di vendetta della banda – s’innestano le molte linee narrative che compongono il vasto affresco storico, sociale e psicologico di questa ulteriore conferma delle qualità letterarie di Maria Giacobbe.
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