I precedenti, altrettanto belli e pubblicati dal Maestrale, vanno da “Creaturine”, un miracolo di originalità e profondità (finalista al Premio Strega nel 2005), a “Il cielo nevica”, l'esordio (Guaraldi 1999 e poi Il Maestrale 2007), fino ad arrivare a “Il giardino non esiste” (2008) e “Alberi erranti e naufraghi” che nel 2013 gli ha procurato il Premio Brancati. La presentazione a Sassari di “L’ultima trasfigurazione di Ferdinand” è in programma domani sera, con inizio alle 17,30 nella Libreria Dessì in Largo Cavallotti; a dialogare con l’autore saranno Rita Marras e Silvia Pilia.
Dopo tre anni da quell'esercizio maturo accolto con entusiasmo dalla critica letteraria (in particolare da Goffredo Fofi), Capitta ritorna adesso con un testo eccezionale che rappresenta la sua corrispondenza appassionata tra la scrittura letteraria e l'amore mai sopito per il teatro. E costruisce un personaggio straordinario come Ferdinand Lieber, un olandese che incontriamo all'età di 54 anni mentre approda sull'isola - verosimilmente la Sardegna - per soggiornarvi un mese. Attore acclamato che ha calcato le scene teatrali di mezza Europa, Ferdinand è la congiunzione indovinata attraverso cui Alberto Capitta racconta quanto il teatro sia impastato con l'esistenza. Da qui lo scrittore procede nell'indicarci la strada maestra di ogni esperienza, unica e irripetibile che, nel teatro come nella vita, è evento, "drama" - intesa come ferita sempre aperta da cui sgorgano i significati. La trasfigurazione è ciò che accade a Ferdinand Lieber fin da piccolo, da quando cioè scopre di aver ricevuto dai genitori lo stesso nome del proprio fratellino morto. Tema molto frequentato dalla letteratura di tutti i tempi e latitudini, il parlare con i defunti diviene per Ferdinand il primo confronto con il doppio teatrale che apre alla molteplicità dell'io. E con la difficoltà di essere arrivati al mondo secondi a un lutto.
La tomba, enigma muto e distante, è esercizio di immedesimazione e prima trasfigurazione. Anche Stella, poco più che ventenne, ospite nella pensione in cui Ferdinand alloggia, ha perso il proprio fratello e questa morte l'ha spezzata dentro. Ragazza dalla natura scostante, sta sull'isola a rammendare le proprie vele e, anche nelle giornate funestate dal vento, entra con la sua imbarcazione nella tempesta. È coraggiosa, Stella, una guerriera che non accetta la sventura della solitudine; il suo con Ferdinand è forse uno degli incontri più intensi di tutto il romanzo. Sono molte le “figurine del destino” che Alberto Capitta mette in fila nella sua narrazione. Lo spazio scenico scelto dal protagonista si popola infatti di benevole presenze: è il caso di Amedeo Castiglia che informa il suo giovane corpo attoriale, prima “un campo immacolato” e poi riarso dalle intemperie e dai dolori. C'è anche Maurice che, come Francesco D'Assisi, è amico degli uccellini. E poi Margot, bambina irriverente che sogna una via di fuga da una quotidianità che le sta stretta. In tutto ciò, Ferdinand Lieber un giorno urta con l'imprevisto. La ferita dell'attore, la trasfigurazione attraverso cui si cala nei suoi personaggi, avverte una vicinanza con la ferita umana che bussa a presentare il conto. Quel corpo che non è solo il proprio ma anche quello di altri, a un certo punto si trova davanti al baratro della violenza e dell'ingiustizia rivolta ai viventi. Ed è da qui che tutto cambia di segno. Per una strana combinazione della sorte, Ferdinand vedrà come finisce di vivere un proprio simile e toccherà lo scandalo di una guerra imminente. Le ferite allora si attraggono, si toccano, succede sempre - prima o poi. Il sangue del dentino da latte strappatogli dal padre in seguito a un brusco schiaffo, ha lo stesso retrogusto del sangue del teatro. C'è il sangue di un mondo alla rovescia, che nasconde la propria fragilità e non la mette in comune con gli altri. Il sapore di quel sangue, intuito dagli innamorati, come Liselotte in una parentesi passionale di Ferdinand a Bruges, è della stessa qualità che in Creaturine descriveva la “bellezza di spine” di Nicola, “che fa sanguinare gli sguardi”.
In questa torsione, breve come un sussulto o un morso del labbro, in quell'accorgersi di un candore silenzioso e ordinatore sotteso alla realtà c'è una parte importante della poetica di Alberto Capitta. Insieme a un invisibileche permea il mondo e che tuttavia si ritiene dicibile. Il resto, il non detto, è la vulnerabilità degli assenti e dei sopravvissuti che come Ferdinand Lieber, al pari di molti personaggi a cui Capitta ha dato forma in questi anni, conosce la propria intima sostanza, in sonno e in veglia.
Alessandra Pigliaru