Il pianeta terra alla fine dei giorni
In La fine dei giorni (Il Maestrale), secondo romanzo di Alessandro De Roma - scelto come «libro del mese» dagli ascoltatori di Farhenheit - la realtà desolante di questi anni si nasconde dietro la potente metafora della fantascienza. Non aspettatevi astronavi, pianeti sconosciuti, viaggi interstellari. Il pianeta è quello dove viviamo ogni giorno, quello che sta vivendo una decomposizione sociale, politica e spirituale, quello che rischia di scomparire avvelenato dal petrolio, corroso dalla luce azzurrognola delle televisioni sempre accese, quello insieme ipertecnologico, pieno di informazioni che viaggiano alla velocità della luce eppure non informano.
La fine dei giorni è un libro potente. Scritto con uno stile raffinato che De Roma aveva già rivelato nel suo primo romanzo, Vita e morte di Ludovico Lauter. De Roma pensa in grande e se deve scegliere dei modelli narrativi guarda al Kafka de Il processo e ancora a 1984 di George Orwell. La storia è ambientata a Torino. Ma dentro il romanzo di De Roma questa città appare, pur uguale a se stessa, profondamente malata, una malattia che dalla città grigia e plumbea percorsa da gente smarrita, da tram impazziti che sfiorano i passanti, a volte li colpiscono lasciandoli morti sull'asfalto, si è trasmessa agli esseri umani.
La malattia ha singolarmente a che fare con la memoria, la capacità di ricordare. Anche qui l'aspetto metaforico ha una sua potenza evocativa. Una società dominata da Internet e dalla televisione, percorsa dagli sms che non ricorda più. Esseri umani che vagano per le strade cercando di ricordare dove sono, dimenticando anche le cose più essenziali, quelle che riguardano la sopravvivenza, mangiare, dormire riconoscere gli altri. Una società incapace di vivere le normali relazioni quotidiane. A pensarci bene lo spostamento che De Roma opera sulla realtà è minimo, una leggera obliquità che rende tutto più cupo e differente, più doloroso. Il protagonista per difendersi dalla «malattia» della memoria tiene un diario che gli serve per non perdersi completamente dentro questa nuova vita. Una vita passata fra il suo lavoro di insegnante in una scuola superiore e la casa dove abita, come un relitto beckettiano, suo padre. Sempre seduto davanti alla TV incapace di procurarsi il cibo, imboccato da suo figlio con le «fette biscottate ai cinque cereali», l'unico cibo che si trova nei negozi ormai spogli del centro, nei supermarket abbandonati.
eccolo in controluce il presente, il desiderio profondo di una società che vive dentro il mito del consumo, dentro la voracità dei prodotti che affollano la nostra vita, spesso non necessari ma da accumulare per dare un senso alla vita. Il rapporto fra il padre ormai demente e il figlio aggrappato agli ultimi bagliori di una memoria che svanisce è una delle parti più intense di questo romanzo che usa l'idea del diario come escamotage narrativo che vincola indissolubilmente il narratore principale al lettore . Il lettore è accompagnato dentro questa «decomposizione» sociale che comincia da un condominio, un tempo popoloso, dal quale ormai siano scomparsi uno dopo l'altro quasi tutti gli abitanti soprattutto gli anziani. Una decomposizione che si trasmette al tessuto di una città che appare come «un arcipelago di marciapiedi», piovosa, attraversata da gente che cammina senza coordinate, incapace di riconoscere le strade, di tornare a casa. Strade che sono battute da bande pericolose e violente. Il protagonista Giovanni Ceresa, è un professore di Storia. La scelta di una materia come la storia è singolare per un individuo che non riesce a ricordare. De Roma nella vita vera insegna Storia e Filosofia, ma la Storia qui ha un significato simbolico, è l'immagine ci una società che davanti alla televisione ha perso il contatto con il suo passato, con la memoria, devastata da un presente che rivela una società la cui patologia risiede nel chiudersi in se stessa, nell'aver ridotto al minimo i momenti di socializzazione.
Lo sguardo di De Roma sul presente è lucido come l'analisi di un sociologo. Sullo sfondo i meccanismi del romanzo di genere, funzionano perfettamente. Il cimitero monumentale di Torino è abitato dagli «apocalittici», «selvaggi di ritorno» come li definisce Ceresa fra i quali vive la sorella del protagonista Carla, «docili mostri» che si nutrono dei cadaveri, «altrimenti come vivrebbero?», pronti a marciare per la città per svegliare tutti, per restituire a tutti la libertà. La città è attraversata da bande di «barbi» che entrano nei negozi li svuotano, si buttano su tutto, famelici, sfrenati, nel loro compulsivo vagare per una città vuota e minacciosa.
la trama di questo romanzo che sarà utile non rivelare per non negare al lettore il gusto della sorpresa, come nella migliore tradizione del romanzo di fantascienza è molto complessa e affascinante. De Roma crea degli effetti di attesa che ruotano tutti intorno ad alcuni personaggi come Winnie, il vero deus ex machina del romanzo, il migliore e ormai unico amico di Giovanni Ceresa, nome non a caso beckettiano, come in Beckett infatti ne «La fine dei giorni» la realtà appare ancora, ma è come svuotata, anche gli esseri umani sono relitti di un passato di cui rimangono solo i segni, segni in disfacimento, segni di una realtà la cui crisi appare irrimediabile. Alla fine De Roma costruisce un meccanismo narrativo in cui la sorpresa, come nel finale del suo primo romanzo, gioca un ruolo fondamentale. Come nei migliori romanzi di fantascienza, ancora una volta al nostro pianeta verrà offerta in extremis una possibilità di salvezza, ce la faranno ancora una volta gli esseri umani?