Un romanzo sulla memoria. Come tutti i romanzi di Giulio Angioni, anche in quest’ultimo, «Alba dei giorni bui» (Il Maestrale), il passato ha un peso decisivo. È come una forza invincibile, che condiziona il presente in ogni sua piega, sino a diventare motivo di paralisi della volontà e, in molti sensi, di rinuncia a vivere. Stavolta il passato ha una forza biologica, la forza dei geni, del DNA. Uno dei temi centrali del libro È il rapporto tra generazioni, tra genitori e figli. Con «Alba dei giorni bui» Angioni ha vinto l’edizione 2005 del Premio Dessì. Ha battuto la concorrenza di Roberto Alajmo con «È stato il figlio» e di Elisabetta Rasi con «La scienza degli addi». La cerimonia di premiazione si È svolta sabato a Villacidro. Il vincitore della sezione poesia È Cesare Viviani con «la forma della vita» (Einaudi). Enzo Bettiza con «Il libro perduto» (Mondadori) si È aggiudicato il premio speciale della giuria. Per la sezione Opera straniera È stato premiato Jorge Semprum per il libro «Vent’anni un giorno» (Passigli). La protagonista del romanzo di Anioni, Alba, È una trentenne e fa la genetista. Lavora solo di notte, impegnata in un progetto di ricerca internazionale che la mette a contatto con altri scienziati in ogni parte del mondo, con i quali comunica solo via computer. La notte la separa dal mondo e a lei sta bene così. Una vita che ha raggiunto un suo equilibrio; separato, forse, come in un rifugio, come in una tana, ma solido. Almeno sino a quando Alba non scopre che il fratello minore Carlo, al quale ha fatto da madre dopo la morte prematura di entrambi i genitori, È un tossico. Cambia tutto. Alba cerca di sottrarre il fratello alla dipendenza dall’eroina. Ma non ce la fa. I fantasmi del passato, la malattia del padre, il suo senso di sconfitta, la rassegnazione della madre ad una vita senza storia, tornano di continuo a fare da contrappunto ai tentativi sempre più frustranti di Alba. «Il passato torna – dice Angioni – anche nei più minuti comportamenti di Alba e di Carlo. Torna nella somiglianza tra genitori e figli, nei gesti, nelle parole, nel copione delle nevrosi vissute come una trappola, la trappola della famiglia, dalla quale non si può scappare». Scappa l’altra sorella, Valentina, va via, in un’altra città, in un altro continente, al di là del mare, mette tra la sua vita e ciò che resta della sua famiglia, la distanza di enormi spazi. Alba resta. Inchiodata al passato, a ciò che il passato ha fatto della sua esistenza e di quella di Carlo. «Memoria quindi – dice Angioni – ma anche fedeltà. Fedeltà ad un rapporto di cui ci si sente responsabili. Fedeltà fondata sulla responsabilità». Fuori dall’appartamento c’è un mondo in cui regna l’indifferenza. Alba non resta indifferente al dolore, mascherato di ironico distacco e di cinismo, che rode e consuma Carlo. Vita che si spreca vita perduta. «Vale soprattutto per Carlo. Carlo bambino ha in sé una straordinaria potenzialità di felicità, che il corso della sua esistenza volge in disperazione. Questo determina in Alba un forte senso di colpa, per non essere riuscita a far fruttare quella potenzialità, nella vita di Carlo ma anche nella propria. Un senso di colpa, un tormentato interrogarsi sul senso delle proprie azioni che alla fine sfocia in un confronto diretto con un giudice, che però dichiara che non c’è alcuna possibilità di giudizio, lasciando Alba sola di fronte alle scelte compiute e a quelle da compiere». «L’incertezza del bene e del male, come l’incertezza del vero e del falso» spiega Angioni «sono temi forti del libro: non poter riconoscere che c’è stata colpa, non avere più punti di riferimento per stabilire questo, per esprimere un giudizio». Alba lavora di notte. È come se – lo abbiamo visto – il buio, l’ombra potessero essere rifugio dal mondo. Ad Angioni viene dato u premio intitolato ad uno scrittore, Giuseppe Dessì, il cui romanzo più bello si intitola «Paese d’ombre». Raccontare, per alcuni scrittori sardi, È mettere al riparo la vita dietro un’ombra di reticenza. È così in Salvatore Mannuzzu, ad esempio, oltreché in Dessì. E in un certo seno il discorso vale anche per Salvatore Satta. «Sì – risponde Angioni – la reticenza su noi stessi. Reticenza che è risentita rispetto al fatto che invece ciò che ci si para davanti sembra dire tanto, pretende di dire tanto e poi invece non dice. Meglio i reticenti di quelli che il mondo lo vogliono far parlare senza dire niente. Io non so se la nostra reticenza È portatrice di senso. Certo reca in sé una forte domanda di senso».