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Settembre 24, 2005
In giro con Atzeni nella città bianca

Nel laboratorio dello scrittore isolano a dieci anni dalla scomparsa: cartoni preparatori e predilezioni (da Bulgakov a Borges/Bioy Casares)

 

 

Custode del Tempo, cioè della memoria, pastore di storie. Potremmo cercare di sintetizzare così la breve vita narrativamente felice di Sergio Atzeni, di cui ricordiamo il decennale della scomparsa (nel mare freddo di Carloforte, nel pomeriggio d’una giornata di vacanza) come una ferita alla quale non ci si può rassegnare. Troppo stupidamente crudele il destino che all’improvviso spegne a quarant’anni uno scrittore così dotato, così significativo per originalità espressiva, così fermo nelle motivazioni civili del suo rigoroso artigianato. Sognatore e realista, solitario, risentito e appassionato come un personaggio di Paolo Volponi. «Matto» d’un’utopia che vorrebbe le società umane migliori di quello che sono.

Gli venivano a brucare in mano, le storie, a Sergio. Ma lui andava a cercarle in giro, le accudiva, rifiniva con scrupolo maniacale per ricuperare lo spessore vitale della Storia, per immetterle tutte – quelle antiche e quelle d’oggi – nella conflittuale complessità della vita, per dare voce allo sconforto di una generazione in bilico tra precariato e sfida che si sentiva emarginata, che si dava coraggio con i sogni per meglio affrontare la realtà, che rifiutava la rivolta violenta ma anche la rassegnazione al degrado del sottogoverno e del clientelismo: «Guardavamo a occhi aperti e spaventati un mondo che non ci apparteneva».

Proprio in occasione del decennale le Edizioni Il Maestrale di Nuoro (www.edizionimaestrale.com) dedicano un’accurata e amorevole edizione critica, firmata da Giuseppe Grecu, ai racconti e ai radiodrammi ante 1986, l’anno cioè in cui Atzeni lascia l’isola e debutta da Sellerio con L’apologo del giudice bandito. Entriamo così nel laboratorio dello scrittore, che in questi 27 pezzi mette a punto la sua scrittura sincopata, schizza cartoni preparatori, intreccia temi e ibrida linguaggi, fonde il piacere di narrare con lo scandaglio antropologico, confessa predilezioni (Bulgakov e Borges/Bioy Casares su tutti). Ma soprattutto fa i conti con la sua Cagliari, stupito che ne avessero parlato Lawrence, Vittorini e Carlo Levi, non degli scrittori sardi. La «città bianca» del titolo, aperta agli incroci e alle ibridazioni, e da quelle arricchita, ma anche corrotta, sino a risultare «stretta, provinciale, untuosa, morta». Tanto da giustificare lo strappo della partenza raccontata ne Il quinto passo è l’addio.

Di Atzeni è stato detto che faceva i conti con la storia dell’isola, con la sua identità e le sue radici attraverso strumenti moderni, in cui aveva gran parte la musica, e il rock in particolare, con le sue percussioni, i suoi ritmi. Atzeni non cercava consolazioni o idilli, non occultava le durezze di una Storia irsuta, fatta di sangue, violenza, faide. Poteva sentirsi italiano ed europeo, come un Beppe Fenoglio insulare, proprio perché sardo fino al midollo, perché lavorava sulle proprie radici sino a farne un’epica scartavetrata e barbarica, dolorosa, ma lampeggiante d’umanità vera.

Atzeni è diventato, in Sardegna, un punto di riferimento, un oggetto di culto. Giusto così, ma non lasciamolo lì, non confiniamolo nell’etno. La sua epica realista è di quelle che fanno sentire forte a tutti la necessità della vera letteratura.


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