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Agosto 26, 2020
La grande Storia che dilania le vite ma consente di riavvolgere la memoria

Una donna che trascorre alcuni mesi in un paesino della Sardegna «interna» frequentando la biblioteca comunale leggendo avidamente i giornali del 1986; un bibliotecario colto, uomo di altri tempi che svolge la funzione di coscienza critica della comunità locale; un sindaco democratico che deve vedersela con un avversario razzista e nostalgico del ventennio; e la fine di una storia d’amore riavvolta dal viaggio della donna fino al punto di svolta di quell’amore adultero tanto intenso da continuare a frequentare i sonni degli amanti quando il rapporto è finito da tempo. Sono alcune delle tante vicende che si dipanano nel romanzo di Giulio Neri (A tie solu bramo, il Maestrale, pp. 215, euro 18) scorrendo nel palcoscenico della grande Storia, quella scandita dalle guerre, dalla fine della guerra fredda, dell’avvio, crescita e declino della globalizzazione liberista.
GIULIO NERI è uno scrittore che alterna il lavoro per accumulare il reddito che gli consente di vivere all’impegno nella scrittura. Ha già pubblicato un romanzo (Carta, Forbice, Sasso, per Asterios), collabora ad alcune riviste e siti letterari. Con questa nuova opera si vuol confrontare sul rapporto tra Storia e storie, pescando nella memoria degli anni Settanta, la fine della città operaia torinese, sostituita da un agglomerato di servizi e università con aspirazioni di eccellenza, la guerra del Golfo, la deflagrazione dei Balcani, l’ascesa dell’islamismo radicale. Testimoni e protagonisti sono una donna, che si scopre malata terminale di un tumore, una giornalista, che scambia la ricerca della libertà con la attiva collaborazione con la Cia, il Pentagono e le politiche di potenza degli Stati Uniti, ritenuti il bastione della democrazia nei confronti dell’oscurantismo comunista prima e islamista dopo.
C'è anche un critico cinematografico militante, che introduce i film al cineclub torinese Alphaville in onore del regista Jean Luc Godard che diede quel nome a uno dei primi suoi film. È un sessantottino, che vive alle spalle della moglie, che alle barricate ha preferito la carriera e amori occasionali con altrettanti aspiranti manager di successo. C’è infine, il figlio di un grande vinificatore di origine egiziane, ha coltivato e tirato fuori un vino divenuto una vena aurifera per il suo proprietario.
Un libro scritto bene, ma che corre il rischio di affastellare troppe vicende in una narrazione polimorfa al punto da diventare una matassa difficile da sbrogliare. La grande Storia non lascia inoltre respiro. Scorre, travolgendo e dissolvendo tutto. Il Sessantotto è solo illusione, caratteristica che non appartiene alla politica di potenza, che può essere sconfitta ma rimane sempre una cosa seria. Non si capisce perché l’invasione dell’Iraq è cosa da guardare con malcelata attenzione, mentre il Sessantotto merita solo frasi sprezzanti, come quelle messe in bocca a un hacker militante di Anonymous che dice che quell’assalto al cielo era solo parolaio: dovrebbe forse leggere meglio qualche giornale per capire quel che è stato il Sessantotto a livello mondiale.
La successione degli eventi è un riavvolgimento del tempo da quando la donna ha pochi giorni di vita a molti anni prima, quando è iniziata l’esperienza del cineclub e la relazione amorosa con il docente universitario, che è uno noto nel mantenimento dei cadaveri.
Ci sono troppe cose, sicuramente, ma ognuna di esse a suo modo cattura attenzione, come l’infinita guerra siriana che vede coinvolgere giovani attivisti e vecchi marpioni della stampa embedded nel cercare di fermarla e stabilire un ordine regionale più soddisfacente per tutti gli «esterni», perché i siriani rimangono sempre oggetti ai quali applicare ricette politiche e sociali decise altrove.

Rimane sempre quell’amore struggente, che poteva cambiare la vita dei due amanti. Ma la grande Storia ci ha messo lo zampino. E la vita ha seguito percorsi e battuto sentieri imprevisti. Come è sempre la vita.
22 ago 2019 - il manifesto | Benedetto Vecchi

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