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Aprile 1, 2003
La parola ritrovata

Sono molti i meriti da ascriversi al lavoro di Giancarlo Porcu autore di un saggio complesso e accurato che associa a una solida competenza filologica rare doti di sensibilità linguistica e una sicura padronanza del dominio culturale sardo. Oggetto d’attenzione non è la sola opera in versi di Pascale Dessanai, poeta nuorese attivo a cavallo dei secoli XIX e XX, ma l’intero percorso compiuto dalla lirica sarda nell’arco della seconda metà dell’Ottocento, con significativi affondi nella tradizione poetica regionale e richiami sia alla coeva letteratura in lingua (Stecchetti, Aleardi, Deledda), sia al parallelo sviluppo del linguaggio pittorico del nuorese Antonio Ballero. Ne risulta un ritratto inedito e ricco di sfumature, che riscatta l’attività del Dessanai dal rischio di una considerazione marginale e provincializzante, recuperandola piuttosto, innanzitutto editorialmente, a una coscienza critica che ne riconosce, almeno nelle punte più alte, l’indubitabile appartenenza (così il prefatore del volume [Emilio Pasquini]) alla «storia del realismo occidentale». Confrontandosi con la tesi continiana di un’opposizione duale tra produzione in lingua e produzione in dialetto, in base alla quale la seconda viene innanzitutto compresa quale controcanto comico-parodico della prima, Porcu ne scopre l’inadeguatezza a rendere conto della tradizione poetica in lingua sarda. La letteratura in limba (‘dialetto’) cresciuta nell’isola si è, almeno a partire dal Cinquecento, caratterizzata piuttosto per la costituzione di una koinè sovraregionale su base logudorese, che si è quindi affiancata, senza intenti parodici ma spinta al contrario da ambizioni classicistiche, all’italiano illustre come codificata ‘lingua della poesia’. Al modello estetico di marca continiana, incentrato sull’antitesi tra mono- e bi- (o pluri-) -linguismo, lo studioso ne sostituisce dunque persuasivamente uno diverso, fondato su uno schema tripartito, che opportunamente equipara italiano illustre e logudorese illustre collocandoli su uno steso piano di Lingua (nazionale vs. regionale) e riservando la qualifica di dialetto al solo nuorese. Una premessa linguistica provvede quindi a isolare i principali tratti separativi tra logudorese illustre e dialetto nuorese (in genere più conservativo, rispetto alla koinè), che costituiscono dunque i due poli linguistici tra cui si muove la produzione in sardo di Pascale Dessanai. […] La prima parte del libro affronta il problema di un inquadramento regionale del Dessanai […] Rifacendosi ad alcune formulazioni pasoliniane, atte a definire i rapporti fra cultura alta e cultura popolare, Porcu rileva […] la necessità di considerare una «doppia dinamica ascendente», valorizzando il fatto che la produzione poetica nuorese dell’Ottocento tende ad avere presenti non una ma due tradizioni di riferimento: l’italiana e la logudorese. L’esito espressivo di questa «competenza molteplice» è una mescidanza di codici che, con diversi modo e gradi di contaminazione, dà vita a componimenti linguisticamente ibridi. […] Ma è anche interessante lo sguardo retrospettivo con cui lo studioso indaga il lento costituirsi di una coscienza, glottologia e dialettologia prima che storico-critica, dell’esistenza di una koinè letteraria regionale di marca logudorese, fortemente condizionante rispetto all’impiego poetico di ogni altra variante sarda. È nel corso dell’Ottocento che si assiste però ad un graduale processo di «appropriazione poetica» della parlata nuorese, in coincidenza con una più generale evoluzione del gusto che coinvolge anche le arti figurative e che, fatto di grande rilievo, avanza in una direzione opposta a quella registrata da Tullio De Mauro a proposito della poesia ottocentesca in romanesco. Se in quest’ultima è giocoforza prendere atto di un uso crescente della lingu nazionale (campioni Belli, Pascarella e Trilussa), nel caso nostro «l’evolversi della lingua poetica nuorese descrive una linea di progressivo abbandono sia dell’italiano, sia del logudorese illustre» (p. 50). […] La seconda parte del saggio, collocato il Dessanai al culmine di tale processo di intenzionale acquisizione del dialetto locale al dominio della poesia, si inaugura con la ricostruzione dei contorni biografici dell’autore, operazione delicata e parzialmente compromessa dalla scarsità dei documenti ufficiali. […] Ma la zona senz’altro più importante di questa sezione è da cercarsi nel secondo e terzo capitolo, dove l’attività letteraria di Dessanai viene ripercorsa a partire dalle sue origini manieristiche, ancora legate alla tradizione logudorese […] Pienamente rispettosa del canone appare la raccolta pubblicata nel 1890, sotto il titolo, dalla valenza simbolica, di Néulas (‘nebbie’). Un canzoniere scritto a quatro mani con il compagno Amico Cimino, linguisticamente concluso nei limiti del logudorese illustre, con rarissime incursioni nel dialetto, e tematicamente vincolato ad un repertorio esclusivamente letterario […] Una fase di transizione fra manierismo loguodrese e realismo nuorese è quella che si apre con il sonetto Cherrende, primo testo interamente dialettale di Dessanai: un «quadretto di genere» fortemente influenzato, per la scelta e per il trattamento artistico del soggetto, dall’opera di Ballero, pittore orientato verso l’arte fiamminga. Così, «se il realismo pittorico poté trovare nella luce caravaggesca (luce vera) il medium tecnico più adatto ai suoi scopi rappresentativi, Dessanai lo va trovando nel nuorese» (p. 107). Porcu non manca tuttavia di osservare la differenza di timbro che separa la lirica di Dessanai, sempre più declinata nel senso di una »fosca rassegnazione», dalle immagini solari e serene del Ballero: sintomo di un diverso modo, già tragico, di guardare alla realtà degli umili. Non semplicemente estetico, dunque, ma serio è, opportunamente giudicato con ricorso alla nota distinzione di Auerbach, il realismo che connota la matura produzione in nuorese: fase senz’altro maggiore dell’opera poetica di Dessanai […] ben salda intorno ad un nucleo organico in cui intenzioni estetiche, moralità e scelte tematico-espressive funzionano sincronicamente, secondo un disegno molto coerente. Appare chiara la decisa volontà innovativa rispetto alla tradizione poetica in lingua sarda: la mimesi non risponde a intenti ludici ma a un desiderio di verità sociale, che, non diversamente da quanto accade nella coeva opera narrativa della Deledda, alimenta un’operazione eversiva, tanto contro un’immagine stereotipa della Sardegna, variante pittoresca ora del topico locus amoenus ora del mito del ‘buon selvaggio’, quanto contro «il rassicurante ed idilliaco disimpegno della poesia sarda tradizionale» (p. 130) […] Parallelamente si assiste a quel processo formale che Franco Brevini ha nominato «rivendicazione del dialetto come lingua della realtà, della moralità, della verità».


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