L'edizione di un classico in lingua sarda è sempre un evento da salutare con piacere perché conferma la continuità d'interesse per la letteratura sarda che ormai da vari decenni viene curata, promossa, riscoperta dopo essere stata relegata nella penombra del colore locale e nella categoria della produzione "dialettale," che e come dire produzione di qualità inferiore e dilettantesca. Ora le cose sono cambiate da quando "dialettale" non implica necessariamente uno scadimento di valore estetico, considerando che nel secondo Novecento hanno scritto in dialetto poeti come Pasolini, Zanzotto e Pierro. Non solo: la nozione stessa di "dialetto" ha dato luogo a importanti discussioni teoriche sui temi della "diglossia," dei "diasitemi," della "alterità" e perfino della globalizzazione. Se questo è vero in generale, per la Sardegna lo è in misura maggiore e diversa perché il sardo ha statuto di lingua e non di dialetto, benché all'interno del suo sistema conosca poi le varietà dialettali; ed è una lingua che altre lingue egemoni, la catalana e il castigliano prima e l'italiano dopo, hanno cercato di sopraffare. Pertanto i problemi maggiori che un editore di testi sardi deve affrontare non sono di natura ecdotica, quanto invece stabilire il valore del testo che si presenta (nessun filologo romanzo avrebbe riluttanza alcuna a editare pochi versi in provenzale o un sonettaccio pur che abbia una patina d'antico) perché solo contestualizzando adeguatamente i testimoni di quella cultura si ricostruisce bene la strada che questa ha percorso, e si evitano le esaltazioni campanilistiche di prodotti di scarsissimo rilievo. Non è facile collocare un autore sardo che si muove sempre in quella sfera che da una parte guarda alla propria tradizione, dall'altra non può fare a meno di tener presenti i modelli della cultura egemone e "ufficiale." Editare un autore sardo è lavoro relativamente semplice per la prevalente linearità delle tradizioni testuali; qualche difficoltà, sorge semmai nel risolvere problemi di ortografia, nell'adozione di segni diacritici, e qualche volta nella traduzione; per il resto la vera difficoltà sta nel capire quella poesia, in alcuni casi nata da vera schizofrenia culturale, e spesso ondeggiante fra formulistica orale e volontà di emancipazione in direzione dei modelli egemonici, tra un'audience locale e una almeno regionale, tra fremiti di originalità e timori di abbandonare il solco tracciato dalla tradizione, insomma tra "lingua" e "dialetto."
Peppino Mereu (1871-1901) è un autore pressoché emblematico dei problemi indicati. Morto giovanissimo, di cultura modesta, di talento ben più alto di quello dei tipici poeti-improvvisatori, con un repertorio tematico e uno sperimentalismo metrico ignoto a questi – ma dell'improvvisatore conosce le zeppe, le formule, il linguaggio con patina di cultura storico-mitologica – è visto dall'editore come il frutto più rappresentativo di quella cultura postunitaria o di fine Ottocento quando la Sardegna è chiamata a sacrificare la propria identità linguistica e culturale al nuovo assetto italiano. Giancarlo Porcu ristampa la raccolta di 29 componimenti pubblicata in vita dell'autore per le cure di un suo amico; a tale corpus aggiunge una serie di poesie apparse in riviste, e quindi varie altre disperse, recuperate da manoscritti: con questo volume, dunque, dovremmo avere la produzione completa di Mereu, e sembra da escludere che nuovi componimenti vengano alla luce nel futuro perché la ricognizione di Porcu sembra esaustiva.
I criteri editoriali sono impeccabili a partite da quelli riguardanti l'ortografia, problema sempre spinoso quando manchino norme e/o tradizioni fisse alle quali fare appello, e quando la scripta tende ora formarsi su un dialetto anziché su un altro, e quando, per giunta, un autore come Mereu nel corso della sua breve vita muta orientamento, passando dal logudorese al nuorese. Non solo, ma l'ortografia deve tener conto di elementi metrici, della dizione in pubblico o della lettura privata, e conseguentemente valutare il peso di certi fattori come ad esempio l'uso della /e/ paragogica (si vedano a proposito le ottime osservazioni a p. 440). Ugualmente forte è la competenza su problemi linguistici, e rigorosi sono gli apparati. Tanta filologia potrebbe sembrare eccessiva per un'opera sufficientemente pregevole da resistere benissimo senza l'indicazione di qualche variante e di tutti i testimoni; ma non si tratta di far mostra di mestiere o di esaltare per questa via l'opera del poeta, quanto invece di mostrare la consapevolezza che la giovane filologia sarda sta aprendo la via alle generazioni di studiosi che nel futuro editeranno testi in sardo: a quelle generazioni bisogna lasciare modelli e proposte editoriali dalle quali possono partire sapendo che anche in filologia le tecniche e le soluzioni si raffinano col tempo e con l'esperienza: ad esempio, quando fu introdotto nei testi provenzali il "punto in alto", poi adottato anche dagli italianisti?
La parte più nuova di quest'edizione è il saggio, un profilo critico della poesia di Mereu che chiude il volume. Il titolo "Peppino Mereu. L'ultimo poeta in lingua sarda" sorprende perché gli ultimi cinquant'anni hanno conosciuto una fioritura straordinaria di poesia sarda. Evidentemente Porcu intende "poesia sarda" in un'accezione particolare che aggira la dicotomia lingua/dialetto e anche quella alta/bassa su cui s'imperniano le discussioni sulla letteratura dialettale che per dialetto intendono una lingua scelta in quanto diversa da quella nazionale al cui sistema pur appartengono. Secondo Porcu la formula si applica senza difficoltà nel rapporto sardo/italiano ma solo a partire dal momento in cui il sardo viene percepito non più come lingua della "nazione sarda" ma come un dialetto della "nazione italiana." Questa percezione si afferma verso la fine del secolo diciannovesimo in fase postunitaria, ed è il momento in cui sardo e italiano "divorziano" diventando il primo un dialetto e il secondo ascendendo a lingua egemone, a lingua di cultura nazionale. Tra dialetto e lingua esisterebbe una zona ambigua che Porcu chiama "tradizionale" che conserverebbe ancora il senso di "nazione," che può accostarsi ad altre culture da pari e non in posizione subalterna, e che può metabolizzare altre culture senza rinunciare alla propria. Per capire meglio questo discorso possiamo pensare al rapporto tra l'italiano e il francese, a due lingue che pur vivendo esperienze del tutto indipendenti possono conoscere scambi, prestiti, influenze, senza che per questo una sia superiore o egemone rispetto all'altra. La situazione del sardo anteriore al "divorzio" postunitario e analogo, ed è questa la cultura sarda nella quale opera Peppino Mereu, il quale per questo motivo viene ad essere "l'ultimo poeta in lingua sarda". Egli abbraccia le idee socialiste, vede con preoccupazione la presenza "colonizzatrice" del regno unito, si affianca alle esperienze poetiche di un Giusti, imita i toni di certa scapigliatura, si mostra capacissimo in parodie bernesche, chiede in prestito elementi lessicali dall'italiano... ma sostanzialmente si rivolge al pubblico della sua nazione sarda, elabora temi che possono essere anche sardi (dall'epitaffio alla tenzone), crea sistemi strofici che possono essere anche sardi (ad esempio una corona di sonetti), intreccia italiano e sardo per effetti comici. In questo spazio Mereu crea la propria persona di uomo che conosce l'imminenza della morte, che attraverso quest'ottica vede i mali del mondo, che sa trovare la misura dignitosa nell'esprimere la propria ansia esistenziale. Il saggio di Giancarlo Porcu non solo mette nel dovuto rilievo le qualità poetiche del suo autore, ma le contestualizza in modo da modificare in modo lucido e veramente originale la discussione sulla dialettica dialetto/lingua, identità/appartenenza su cui s'imperniano, spesso con confusione, le discussioni sulla letteratura sarda.
Le traduzione delle poesie e stata affidata a tre autori di spicco – Giovanni Dettori, Marcello Fois e Alberto Masala – i quali a richiesta del curatore hanno cercato di rispettare il metro degli originali. L'idea di rendere Mereu "attuale" anche in questo modo è lodevole; forse però i risultati sarebbero stati più congrui con l'impianto filologico dell'edizione se lo stesso Porcu avesse tradotto in componimenti in prosa fedele.