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Aprile 1, 2007
L’epopea di un mediocre sulle tracce del genio

Al principio della nostra recensione all’ottimo romanzo di Alessandro De Roma, nato a Ghilarza nel 1970 e docente di Filosofia e Storia nei Licei di Torino, avremmo voluto poter ricorrere alle opere precedenti e poter dire che la maturità dello stile e la capacità di controllo di vicende complesse e articolate nello spazio e nel tempo sono il frutto di un lungo esercizio e seguono a molta distanza romanzi acerbi e racconti puerili. In realtà Vita e morte di Ludovico Lauter (Il Maestrale, Nuoro 2007) è l’opera di un esordiente capace di governare con ottima penna il respiro ampio del romanzo.

Apparentemente abbiamo per le mani un oggetto perverso nel quale uno scrittore ci racconta le vicende di un altro scrittore che scrive la storia di un terzo scrittore.

Il romanzo si apre con l’autoritratto di un modestissimo letterato bolognese, che, accertata la propria mediocrità e il proprio fallimento, decide di dare una scossa alla sua vita scrivendo la biografia del «più grande scrittore di tutti i tempi» e si rassegna al ruolo di «ape operaia al servizio della sua regina». Si tratta dunque, per lui, di riscattare una biografia con un’altra biografia e anzi, per eccesso di enfasi, di diluire una esistenza ‘inutile’ in una agiografia: «Ludovico Lauter è l’uomo più importante e straordinario che sia mai esistito sulla faccia della terra. Nessuno ha mai scritto libri come i suoi».

Si stabilisce fin dalla prima scena – peraltro ambientata in una clinica psichiatrica presso cui il biografo non solo appare per una visita al suo editore, ma è atteso per un ricovero – una distanza tale tra narratore e oggetto della narrazione, che il lettore è portato ad attendersi una parabola esistenziale amplificata e a interpretare ogni minimo gesto come segno di future gloriose imprese.

E appunto romanticamente il narratore risale la genealogia del «maestro» alla ricerca di tare familiari degne di tanto estro. All’origine c’è la curiosa mescolanza tra lo spirito tedesco – per definizione tormentato e malinconico – di Herman, suo padre, e quello sardo, cagliaritano – mediterraneo e solare – di Giulia, sua madre, favorita dalla tragedia della guerra. Solo una catastrofe storica e una innaturale congiunzione avrebbero potuto generare una tale eccezione! Ma il narratore nella sua maniacale indagine, si spinge oltre, a rebours, ai nonni di Ludovico, dedicando più attenzione alle due nonne: Isaura, altra figura doppia che «considerava fondamentali certe cose frivole, e invece frivole certe cose fondamentali» e Albertina, ieratica e dotta custode del figlio Siegfried. Il narratore fiuta le tracce lasciate da Lauter a Bologna, a Milano, a New York, a Wiesbaden, la terra d’origine del ramo paterno e segue il suo personaggio come si segue una preda nella caccia.

Tuttavia l’agiografo non riesce a perdersi nella straordinaria vita dell’altro e compare, con scatti narrativi repentini, alla Pinter – quasi reagendo all’annichilimento programmato dal genere – con la sua storia presente, ambientata nella casa sul golfo di Orosei nella quale si è ritirato per compiere la sua impresa.

È il tempo dell’incontro con Roberta, proprietaria della casa e amante ‘per corrispondenza’ di Matt, giovane australiano conosciuto durante un viaggio, che acquisirà un ruolo cruciale nello svolgimento del romanzo, fino a sostituire il biografo nel ruolo di narratrice. Si tratta di un presente che ovviamente comprime l’intera storia osservata e ingloba nella vita dello scrittore bolognese la vita di Ludovico e presenta, con quelle incursioni, le due speculari insubordinazioni del Maestro e del narratore. La violenza con cui il biografo massacra il topo – immagine di un particolarissimo e compulsivo lector in fabula – è, del resto, identica a quella di Ludovico bambino alle prese con la sua passione di entomologo.

È un agonistico confronto tra personaggi e tra funzioni narrative con il quale De Roma riesce persino a dire qualcosa riguardo agli spostamenti dell’attenzione della critica dall’opera all’autore, della morbosa curiosità da rotocalco che caratterizza alcuni lettori. La macchina complessa del romanzo procede in un susseguirsi di agnizioni e di rivincite dei personaggi apparentemente defilati contro quelli apparentemente centrali, fino alle ultime pagine, alle quali giungiamo con l’ansia di Pietro, l’editore guasto, il «tenero topo da biblioteca, che rosicchia le costole dei volumi più belli innanzitutto per amore, e soltanto dopo per fame».


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