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Novembre 9, 2010
"Mia figlia follia" , Verità e visionarietà, orrore e bellezza

“Verità e visionarietà, orrore e bellezza”, sono delle costanti nell’opera di Savina Dolores Massa, che con questo nuovo libro tocca una tappa importante del suo percorso di maturazione, confermandosi scrittrice eclettica e pronta a misurarsi con forme e temi diversi, in un continuo rinnovarsi all’interno di un’estrema coerenza tematica e formale.
Tematica perché ancora una volta attinge al mondo dei perdenti, dei derelitti, degli emarginati, guidata da una pietas che non è legata a mode culturali o ad urgenze politiche, ma è semplicemente una condizione dell’anima, quella stessa che nella vita la vede in trincea per ogni lotta tesa alla difesa dei diritti umani. Formale perché, come sempre, la sua vena lirica la porta ad un uso emozionale della lingua, mentre la struttura teatrale dei suoi testi rivela la scelta delle possibilità del teatro come luogo in cui si mette in scena la finzione per smascherare la realtà.
Il tutto si traduce naturalmente in un inconfondibile stile visionario che oscilla tra la deformazione espressionistica e una dimensione onirica capace di illuminare le zone d’ombra dell’esistenza.
La sua è infatti una narrativa non omologabile né strutturalmente né linguisticamente, che si accende di bagliori incantati mentre destabilizza gli equilibri della sintassi e del lessico, così che i sussulti formali creano un groviglio pulsante che è la spia di una ricerca continua. Mi piace ricordare, al proposito, la metafora utilizzata da un amico comune: la narrazione di Savina è come un albero che spinge le sue radici oltre il terreno concessogli per trovare linfa nuova.
Il che non è soltanto istinto o passione allo stato puro, perché le sue opere sono disseminate di riflessioni, più o meno esplicite, sul senso e i modi della scrittura.
Una scrittura, la sua, che io conobbi per la prima volta con i folgoranti e indimenticabili racconti di Isolamatamara, che ripercorrono il Novecento in una Sardegna storica e mitica insieme, dove la struttura conflittuale della società è resa in una dimensione di assoluto lirismo che deforma, scompone e libera la realtà nella sua essenza. E che in Undici, nel ritmo allucinato del pensiero e del ricordo, ci regala frammenti di vite e di esistenze all’interno della storia crudele e violenta del mondo attuale. Non più racconti ma romanzo Undici, in cui le storie narrate si snodano però come in un domino, una sorta di puzzle, tanto che ho creduto di poter affermare che il taglio del racconto breve fosse la forma più congeniale a Savina, poiché le permetteva di esprimere la sua vena lirica all’interno di un processo spazio temporale. Credevo, finché non è arrivata Mia figlia follia. Che è un’opera complessa, pur se godibilissima nell’immediato ed anche da lettori superficiali. Un’opera dal respiro più ampio rispetto alle precedenti, dalle mille e una chiavi di lettura, dove si intrecciano registri linguistici diversi, storie convergenti e insieme parallele, in un immaginario più sciolto ed antirealistico, dove la fiaba si unisce al grottesco ed al tragico, dove ironia e pessimismo cosmico trovano insieme una loro misura.
È impossibile analizzare quest’opera senza svelarne lo scioglimento, che giunge alla fine, inaspettato, a sorpresa. Anche se, con il senno di poi, vi ritroverete a ripercorrerla per ritrovare quelle tracce che vi avevano insospettito, disseminate un po’ ovunque, come le briciole di Pollicino.
E con la fine c’è un nuovo inizio, se non altro di riflessioni che si susseguono ininterrotte, insieme alle domande più diverse.
Naturalmente, anche se poi ogni lettore legge un libro diverso, non posso guidarvi attraverso gli innumerevoli percorsi che l’opera suggerisce, dico soltanto che questa volta dal mondo senza futuro dei derelitti Savina ha scelto la diversità della follia.
Ma una follia non ideologicamente sublimata in saggezza, bontà o ribellione titanica di fronte alle regole di un ordine cosiddetto normale, come pure ci accade di trovare in autori grandi e meno grandi della letteratura mondiale, bensì indagata come meccanismo dell’essere se stessi e del confronto con l’esterno.
Posso aggiungere inoltre che, attraverso il filo sottile di una solitudine che percorre storia e personaggi, ci troviamo in un tempo ed uno spazio storicamente determinati: la Oristano degli anni ’50, con le sue vie, le sue piazze, le sue chiese e i suoi crocicchi sforacchiati dall’abbandono. Un microcosmo che si fa subito universale e senza tempo in quanto storia di una collettività che non sa accogliere ma emarginare. Lo stesso uso del passato remoto utilizzato dal narratore non riesce ad imprimere fino in fondo le stigmate del fatto accaduto, perché la voce della protagonista lo sospende in un terreno ambiguo, crinale invisibile tra realtà e immaginazione, creato da un monologo che ora si fa flusso di coscienza ed ora dialogo, sia pure senza stacchi e virgolette.
La protagonista, Maddalenina, è una piccola cosa aggrinzita che viene al mondo nonostante i disperati tentativi di impedirglielo operati dalla madre, una madre abbrutita dalla solitudine e da una miseria interiore e materiale insieme, e conoscerà dagli altri solo dei ripetuti “vattene”.
Perché lei è disarmonia, sgradevolezza, e la sua immagine non è certo edulcorata dai teneri colori del naif.
Preceduta sempre da un persistente odore di escrementi, mette a prova il lettore, al quale farà però intravedere comunque il fascino di un mondo altro dove vivono valori continuamente disattesi dalla “normalità”.
Maddalenina ascolta i “vattene”assolutamente determinata a cercare il suo posto nel mondo. Conscia unicamente del mistero della propria esistenza e dei propri bisogni, ribalta di continuo, nel suo ingenuo tentativo di inseguire la “normalità”, le certezze più ordinate e regolari. I suoi sguardi di vecchia bambina recuperano prospettive insolite ed inusuali, atmosfere di particolare magia, di un sogno che è sempre pronto a sconfinare nell’incubo, di un impossibile che apre spazi impensati ed impensabili.
La sua vita emerge da brandelli di esistenza, da vissuti che riemergono prepotentemente come grumi di sangue, rottami in un mare nel quale Savina si inoltra per accogliere e custodire quanto altri calpestano. È una deriva, quella di Maddalenina, che si fa sentiero contorto ma ricco di vita. Lei vive di istinti, è una cosa sola con il mondo, ed è proprio la prepotenza della vita materiale a dar corpo alla sua anima.
Attraverso una narrazione ricca di sussulti, in un disordine lucido e visionario, dove incanto e disperazione si declinano insieme, l’estrema fragilità della condizione umana si traveste di abiti fiabeschi.
Accanto alla protagonista una quantità di figure minori stranamente affascinanti, donne come Maria Carta, che vi faranno andare ai famosi personaggi coscienza ideologica dell’autore immortalati da Pirandello, animali come la mucca di Quirino Malannata o addirittura oggetti, tra i quali un originalissimo cero capace di indimenticabili soliloqui.
O ancora, invenzioni come la famiglia Lucente, implosa di solitudine e follia, dove si cerca di entrare mediante strane torte ai pinoli capaci di esplodere per l’invidia! E che dire del misterioso armadio dei ricordi dove palpita il respiro di un tempo perduto?
Insomma, troverete in questo libro l’incanto dei quadri di Chagall, soprattutto quelli di un certo periodo, gli anni ’40, con lo stesso inquietante mistero che nasce dalla prosaicità quotidiana e si esterna in tensioni emotive.
Troverete lo stesso rifiuto delle etichette, la stessa ferma convinzione dell’inalienabile diritto dell’immaginazione a trasformare la realtà, finanche la stessa metafora della finestra che si fa diaframma tra esterno ed interno, prigione sui vetri della quale Maddalenina disegna su un alito che sa di mandarino.
Mentre nei giochi di confusione tra realtà e fantasia rivivono il surrealismo e l’illusionismo onirico di uno Jacek Jerka, a lei fratello nel realizzare continui spostamenti di senso.
Si è parlato molto di realismo magico per quest’opera di Savina, e ciò mi ha riportato a quando io stessa, dopo la lettura di Isolamatamara avevo parlato di realismo delle cose e magia delle parole, rifiutando però l’etichettatura.
Ma forse la verità sta unicamente nel fatto che Savina ascolta le antiche presenze della sua terra, proprio come accade agli scrittori latino americani, i quali, ce lo dicono loro stessi, sono impregnati di una cultura che parla, rubo le parole ad Octavio Paz, “nel linguaggio cifrato delle leggende, dei miti, delle arti popolari” e mantiene la medesima trasformazione surrealistica della realtà operata dai pittogrammi colombiani. Una storia ed il substrato di un immaginario collettivo misteriosi ed eccentrici sono, forse, quello che, anche per Savina, rende inadeguati i mezzi dell’espressione letteraria tradizionale.


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