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Giugno 26, 2002
Todde fuori dal coro del fast food etnico

In questi ultimi anni, la fisionomia e il paesaggio simbolico del romanzo sardo (leggasi del romanzo in Sardegna) sono rapidamente, e in qualche misura insospettatamente, mutati. Per certi versi, mutato è il romanzo (la pratica stessa del romanzo) nell’isola, più di quanto al paragone non siano cambiati i modi e le forme degli altri generi letterari, i quali sono rimasti per lo più immobili, legati all’usato costume (laddove per usato costume s’intenda quella consuetudine mentale basata sulla ripetizione di una Sardegna semiarcaica, sempre circoscritta nel risentimento o nella nostalgia; tutt’al più labilmente protesa nella speranza di una rinascita mai raggiunta, forse impossibile: perennemente alla ricerca del risarcimento di un’identità già postulata a priori). Riassumendo: la Sardegna della tradizione letteraria. La quale poi rispecchiava fedelmente certa Sardegna interiore, ancora impregnata di terra contadina, e che pure nei suoi momenti “alti” conferiva lume d’ispirazione, oltre che lustro, ai migliori interpreti di un passato più o meno glorioso: da Grazia Deledda a Giuseppe Dessì, da Salvatore Cambosu a Salvatore Satta. E, avvicinandoci ulteriormente a noi: da Francesco Masala a Bachisio Zizi, da Maria Giacobbe ad Antonio Cossu, da Antonio Puddu a Giulio Angioni. Ad essi potrebbe aggiungersi pure, in misura del tutto singolare e fuori schema, certo Emilio Lussu “scrittore” e “narratore”. E, caso assolutamente incatalogabile, il solitario Gavino Ledda. Tutti autori, questi, che già indicano, chi per un verso chi per un altro, un orizzonte in relativo e progressivo fermento, in movimento (ma la fase di Ledda è già decisamente pre-deflagratoria). Ebbene, oggi un simile paesaggio geografico o simbolico, che dir si voglia, appare radicalmente trasformato. In certi esempi, come in quello del quale vogliamo ora occuparci, sembra addirittura stravolto. Ordinatamente stravolto. Come a dire straniato e distanziato. Stiamo parlando, nella fattispecie, del caso di Giorgio Todde. Un autore appena ieri iscritto alla provincia degli esordienti e subito diventato una sorta di “homo novus” dell’attuale panorama narrativo italiano. Un autore che sta per essere tradotto in Francia, Spagna e Germania, con la sua opera prima Lo stato delle anime, coedita da Il Maestrale e da Frassinelli, e che oggi si appresta, col suo secondo romanzo La matta bestialità (Il Maestrale, Nuoro 2002), a “raddoppiare”. Accostiamoci allora a questa sua nuova opera. Dicevamo di un paesaggio stravolto oppure straniato e distanziato rispetto al consueto. Proprio come se d’incanto tutti i tradizionali teoremi, assiomi e magari proclami sull’identità, che ormai fioriscono in tutte le salse della comunicazione isolana, siano stati sovranamente dimenticati o superati. E questo la dice lunga sulla differenza e quasi discordanza che esiste da qualche tempo a questa parte tra il mondo delle forme letterarie del miglior romanzo sardo attuale (pensiamo emblematicamente ad autori quali Sergio Atzeni e Marcello Fois) e le locali categorie ideologiche e politiche dell’identità, arroccate viceversa nel narcisismo e ferme ad una fase autocelebrativa e retorica, sostanzialmente conservatrici se non anche retrive. Curiosa, questa discrasia fra romanzo sardo e politica isolana, per cui il primo appare assai più avanti dell’altra nel processo di coscienza e immaginazione. Curiosa e comunque interessante discrasia. Ma cosa possiede di tanto fuori dall’ordinario e dal notorio questo romanzo di Giorgio Todde? Intanto la “storia”. E poi la “lingua”. Insomma: la forma (e, se volete, l’autocoscienza). Perché la “storia”? Perché fabula e intreccio (come li chiamano i narratologi) figurano qui come luoghi privilegiati di una fantasia del reale e di una realtà del fantastico assolutamente giornalieri, ma al tempo stesso stranianti se non stravaganti. Niente a che vedere con le “certezze” perpendicolari del romanzo sardo tradizionale: fatte di memoria, nostalgia, denuncia, solide costumanze. Nella fattispecie, invece, prevale la linea diagonale o spezzata. La sorpresa, il dubbio, l’enigma. Perché la “lingua”? Perché la lingua, adottando un italiano fluido e senza particolari inflessioni, quanto intrinsecamente asciutto e immune da quella moda lessicale delle obbligatorie farciture idiomatiche, da fast food etnico, che oggi ingombra così spesso la narrativa di segno locale; tale lingua – dicevamo – riesce ad esprimere nel testo un coefficiente di novità espressiva in maniera assolutamente discreta, grazie all’invenzione di un codice a tratti garbatamente e intelligentemente metaforico. Umanizza il regno naturale e naturalizza, vegetalizza, mineralizza l’uomo, con una libertà di procedimento “perversa-polimorfa”, ma allo stesso tempo con una sua esatta regola stilistica. Si tratta di una lingua che non insegue in alcun modo fate morgane identitarie, ma che possiede essa stessa un’identità consapevole e dinamica. Incomparabile. Da cui procede una scrittura la cui vera “patria” ideale non risiede fra le “radici”, e nella zolla di terra che lo scrittore calpesta e sulla quale dimora. Al contrario, è una “patria” che alligna nella forma artistica che abita l’io narrante, che s’avvera nello stile che personalmente lo attraversa. L’involucro superficiale del romanzo “La matta bestialità” è il genere “giallo” (con venature di thrilling), il che sembra una concessione al gusto presente. Ma la cosa non sta propriamente in questi termini. Il vero principio informatore dell’opera sembra essere piuttosto l’enigma esistenziale. Il quale presenta un che di dissacratorio e oltranzoso, dalla vaga temperatura pasoliniana: repulsiva sublimità dei nervi troppo tesi, allucinata lucidità viscerale. Si comprende anche come nel nostro caso la categoria del “giallo” si complichi, con apporti e supporti che fanno pensare talvolta alle strategie intellettuali messe in campo da una macchina narrativa dove concorrono fattori o motivazioni di genere multiplo: cognitivo, storico-erudito, fittizio, virtuale. Vano sottrarsi qui alla tentazione di annotare a margine che da questo punto di vista la lezione “costruttiva” di Umberto Eco non sembra passata invano. Attorno ad alcuni personaggi di straordinaria ordinarietà si agitano autentici delitti-rompicapo, scellerati quanto ingegnosi. Il crescendo delittuoso che si manifesta nello sviluppo della vicenda assume alla fine i connotati morali e dottrinali danteschi del peccato di “matta bestialità”: ovverosia la “triplice” convergenza di “incontinenza, malizia e violenza”. In particolare la sodomia associata all’assassinio. Attorno a questo nucleo nero di infernale peccaminosità si snoda (o si annoda), entro una cornice espressiva di paradossale leggerezza, la classica indagine poliziesca. Ma vi si aggiunge e vi s’incrocia anche la variabile di una scienza metereologica fortemente umanizzata: che riceve, da un personaggio chiave nella partitura narrativa del romanzo, la curiosa definizione di “climatologia sociale”. Il simulato ritrovamento poi di un manoscritto dantesco mancante, non inserito nel testo della Commedia in quanto autocensurato dalla stessa mano del Poeta, completa la trama finemente elaborata del libro, conferendo al testo una sorta di valore aggiunto sul piano del disegno strutturale (va precisato che la “finzione” filologica del canto ritrovato, posta al centro del romanzo, è il frutto di un’abilità artistica e officinale sorprendente). Da notare infine il carattere amabilmente surreale della narrazione, come pure la conclusione quasi palazzeschiana (da “omino di fumo”) della vicenda, che giunge al tempo stesso inattesa e matematica, dopo le aberranti vicissitudini di una matassa disegnativa talvolta intinta nell’inchiostro terrifico. Un finale di romanzo di pura astrazione da una corporeità peccaminosa, dall’obbrobrio di una materia umana, troppo umana. E di levitazione ironica, in qualche misura purificatrice, nello spazio siderale. Ecco come lo scrittore descrive una simile “ascensione” aerea, nell’ottica del protagonista della storia: “Ugolino diventò un puntino luminoso e scomparve dalla vista. L’azoto lo stordì. Vide la valle Piperina e i suoi vecchi che potavano gli oleandri. L’ossigeno lo purificò. L’elio lo alleggerì di ogni zavorra. Perforò le nubi e incominciò a sparpagliarsi in uno spazio sconfinato. Il suo scheletrino etereo subì un’accelerazione esagerata. A duemila metri cessò di percepire la temperatura. A cinquemila si rese conto di essere pensiero ma con qualche scoria. Quando a trentamila metri vide il blu assoluto, il pensiero diventò autonomo, senza nomi, e permanente. Seguì l’orbita che seguono i pensieri, girò tre volte intorno alla terra da cui doveva allontanarsi e alla fine, senza più struttura, se ne andò contento e semplice in giro per il cosmo”.

Leandro Muoni


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