Cristina Lavinio, Grazia Deledda ritrovata, in Dialoghi mediterranei, n. 76, novembre 2025
Grazia Deledda, Racconti e versi ritrovati. Dalla collaborazione al “Silvio Pellico”, a cura di Giancarlo Porcu (Il Maestrale, Nuoro, 2025) è un volume che amplia le nostre conoscenze sulla scrittrice, la cui fortuna editoriale cresceva anche per la sua capacità di presentarsi e proporsi alle riviste e testate più varie, a partire dal cuore (Nuoro) di quell’isola quasi sconosciuta che era la Sardegna di fine Ottocento.
Questo lavoro mette a fuoco la collaborazione (tra le meno note finora) della scrittrice con il settimanale torinese “Silvio Pellico”, avvenuta tra gli anni 1895 e 1899, quando lei viveva ancora in Sardegna, ma pubblicava già romanzi importanti come Anime oneste (1895) e La via del male (1896). Lo spoglio accurato dei numeri del “Silvio Pellico” usciti in quegli anni ha permesso al curatore, cui si deve anche un corposo e utilissimo saggio introduttivo, di scovarvi, firmati da Deledda, sei testi narrativi, tredici testi poetici e tre brevi recensioni. Tali testi sono ora raccolti nel volume e riprodotti in edizione critica, con una precisione filologica che ne rende possibile il confronto con versioni precedenti o successive pubblicate (anche più volte) altrove, magari con titoli differenti. Inoltre, si può ricordare che spesso Deledda offriva in anticipo a varie riviste parti o capitoli di romanzi, ancora inediti, che si accingeva a pubblicare (per esempio, nel “Silvio Pellico” troviamo una parte de La via del male): uno stratagemma per far crescere l’attesa della loro uscita.
Un esame puntuale delle diverse versioni dei testi usciti sulla rivista torinese (indicate con precisione da G. Porcu) può permettere di seguire da vicino una parte del percorso di maturazione scrittoria dell’autrice, con i suoi ripensamenti e i suoi interventi correttivi, confermando o precisando quanto già sapevamo al riguardo. Sappiamo bene che le varianti, soprattutto se molto locali e meramente grafiche o ortografiche, possono scaturire anche da modifiche redazionali apportate dagli editori; ma, appena si facciano leggermente più ampie, pur se prive di riscontro in bozze o manoscritti pervenutici, sono ascrivibili decisamente all’autrice.
Secondo un luogo comune diffuso a lungo in passato, Grazia Deledda sarebbe stata disinteressata a interventi migliorativi su bozze che, si diceva, non avrebbe avuto neppure il tempo di vedere, data la mole abnorme della sua produzione. Si è dovuti arrivare al 1987, anno di un importante convegno nuorese, per sentire da Bice Mortara Garavelli [1] la seguente denuncia: «Per i testi deleddiani è mancato finora un esame filologico delle correzioni d’autore reperibili sia nelle stesure anteriori alla pubblicazione sia nelle edizioni a stampa che precedono l’ultima curata o riveduta dall’autore stesso. Ma anche la Deledda merita, mi pare, che si pratichi nei suoi riguardi, e correttamente, quel sano voyerismo critico che permette di introdursi nel laboratorio dello scrittore, di scoprirne talvolta le segrete alchimie, in ogni caso di captare che cosa (poco o molto che sia) sta sotto, o dietro, la superficie del prodotto finito».
Solo a partire dal lavoro di Mortara Garavelli, e dunque solo più di recente, è maturata un’attenzione filologica ai testi deleddiani, ai manoscritti e alle diverse edizioni che a poco a poco si sono reperite e in parte (ma ancora solo in parte) confrontate e analizzate. È comunque ormai smentito il pregiudizio sopra citato, scoprendo invece la cura dell’autrice nel controllare ogni nuova edizione dei propri scritti, con modifiche spesso dettate anche da una continua attenzione al gusto dei possibili lettori per i quali scriveva e che distingueva lucidamente e molto presto in due macro-categorie: i lettori sardi da una parte e quelli “continentali” dall’altra [2] (cui via via si sarebbero aggiunti i lettori di altri Paesi). In particolare, badava soprattutto a coloro le cui rappresentazioni negative dell’isola (piena di fatti di sangue e di banditi) intendeva smontare e decostruire o su cui ironizzava, come spesso le capitava di fare anche nelle lettere che, nei medesimi anni, la scrittrice indirizzava a direttori di riviste, editori, amici (spesso solo di penna) e quasi fidanzati [3].
Inoltre, si è ormai capita (e resta da studiare ancora meglio) l’importanza dell’intreccio (tematico e stilistico) tra le sue numerosissime novelle e i romanzi che contemporaneamente andava scrivendo. Molte novelle sono state raccolte da lei stessa in volumi, dopo averle pubblicate nelle testate più varie, tra cui spicca il “Corriere della sera”; ma ogni volta che si tenta di elencarle tutte si ha l’impressione che tante debbano essere ancora reperite.
Utilmente il curatore e ottimo filologo Giancarlo Porcu inserisce il volume di cui parliamo in questo filone di aggiornate attenzioni critiche e lo correda di “una nuova bibliografia delle novelle e delle prose brevi di Grazia Deledda”, inseguite da una edizione all’altra e suddivise per anno, a partire dalle prime del 1888 fino a quelle, anche inedite, scovate persino molti anni dopo la scomparsa della scrittrice, avvenuta nel 1936. Si ha però l’impressione che ancora molto ci sia da fare anche per i testi poetici deleddiani, considerati produzione “giovanile” che in fondo tanto giovanile non era [4] e trascurati dalla critica letteraria ancora più delle novelle. Del resto, solo in anni recenti si è scoperta e iniziata a capire sia la “modernità” di Grazia Deledda [5] (che della scrittura finì per fare anche un mestiere e che conosceva bene le regole di un mondo editoriale in forte espansione), sia la sua capacità di sperimentare molti generi e forme espressive (comprese quelle in versi).
Tutto ciò, ancora una volta, traspare anche dai testi pubblicati sul “Silvio Pellico”, analizzati e commentati uno ad uno da Giancarlo Porcu. Tra quelli in prosa ritroviamo la Deledda demologa che trae spunti narrativi dagli usi natalizi (Il Natale in Sardegna), da credenze sul malocchio (Nella Baronìa) e leggende su tesori nascosti (La dama bianca). Ma spiccano per il loro particolare interesse due testi: L’ «Ave Maria» di Gounod (frammento del romanzo Il Tesoro, del 1897), dove dinamiche musicali finiscono per dialogare con i moti interiori dei personaggi e, soprattutto, la novella inedita (l’unica che non sarebbe stata più pubblicata in altra sede), Dalle memorie di una lettera, dove il racconto è gestito in prima persona dal foglio stesso su cui scrive una fanciulla. La sperimentalità di questo espediente narrativo non sfugge a Porcu che, pur segnalandone gli antecedenti letterari, sottolinea come in ciò Deledda preceda altre autrici che scriveranno poco dopo testi come, per esempio, Autobiografia di un libro o Memorie di un vecchio libro di scuola. Il foglio della lettera della novella deleddiana diventa testimone di quanto scrive la fanciulla che, innamorata non ricambiata, confessa la cosa a un suo ‘amore’ di comodo, scelto per cercare di dimenticare il precedente.
Sono tracce ovvie di autobiografismo (la giovane Deledda amava, non ricambiata, Stanis Manca e intanto aveva accettato la corte di Andrea Pirodda), in una novella che parla di una lettera probabilmente mai spedita davvero a Pirodda. Ed è una novella che si identifica altrettanto probabilmente con quella, dal titolo leggermente diverso (Dai ricordi di un foglio), con cui l’autrice nel 1893 si era presentata a un concorso letterario, senza vincere.
Anche l’elenco dei concorsi letterari cui Deledda partecipò, innanzitutto con l’intento di farsi conoscere, viene ricostruito da Porcu sulla base di carte e testimonianze varie, soprattutto epistolari, finché… (chi la dura la vince) il più importante, cioè il Nobel, lo vinse davvero. Ed era il 1926, più di trent’anni dopo i primi cui aveva partecipato; e magari dopo avere ampiamente sparso la voce sulla sua candidatura ed essersi creata in sordina una rete di sostenitori possibili [6]. Premio più che meritato per una donna e scrittrice straordinaria, ma destinata ad essere capita e apprezzata nella sua modernità prima all’estero che in Italia e nell’isola da cui era partita.
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