Si è spento il 3 novembre, a 85 anni, Emilio Pasquini, professore emerito dell’Università di Bologna, uno dei più prestigiosi docenti di Letteratura italiana nel mondo. Studioso insigne, saggista raffinato e insegnante straordinario, è stato il mio vero maestro, aprendomi il mondo della critica letteraria improntata a una mentalità filologica, del “come si lavora sui testi” attraverso un non comune eclettismo metodologico. Fu relatore della mia tesi di laurea sulla produzione in lingua sarda del poeta nuorese Pascale Dessanai, discussa a Bologna nel 1998. Prima di accettare quella proposta di tesi, quanto mai decentrata rispetto a suoi interessi di italianista e lontana dalle sue pur vaste competenze linguistiche, volle leggere qualcosa di Dessanai per sincerarsi che fosse un vero poeta. Del fatto che si trattasse di un semi-sconosciuto autore sardo in sardo non gli importava. Gli consegnai alcuni testi nel suo studio di via Zamboni 32 e prese a leggere in mia presenza ma senza l'ausilio della mia traduzione, perché – disse ‒ la poesia, quando c'è, si riconosce anche senza capirla perfettamente. Così, dopo un po' che lui leggeva e io attendevo preoccupato il verdetto, pronunciò bene l’endecasillabo nuorese sul suono fesso di campane incrinate, surdu comente in puttu unu puale (‘sordo come un secchio caduto in fondo al pozzo’), e sentenziò soddisfatto: «Questo è un poeta. Proceda pure.»
Tre giorni dopo la laurea tornavo in Sardegna nella mia Nùoro. La tesi di laurea stava diventando il libro di esordio (La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale Dessanai, 2000) che mi fece inizialmente accedere come autore alla casa editrice Il Maestrale. Lette le bozze, Pasquini volle farne la Prefazione, e quel gesto generoso con il discorso che ne scaturì sono cose che tengo fra le più care. Quando poi ho iniziato a fare l'editor per la casa editrice che mi aveva tenuto a battesimo come autore, mi sono reso conto che Pasquini era stato per me anche maestro di editing, con quella sua attenta lettura della tesi, capitolo per capitolo, corredata di correzioni e suggerimenti (e quanta signorilità nel segnalarmi le troppe ingenuità di quella dissertazione). Dantista di fama internazionale (magistrale, fra le altre cose, il suo commento garzantiano della Commedia in collaborazione con Antonio Enzo Quaglio), offrì la propria consulenza all’«inedito» canto dantesco sulla «matta bestialitade», inventato da Giorgio Todde (un altro fondamentale amico venuto a mancare in questo disgraziato duemilaventi) in collaborazione con il fratello Felice e inserito nel romanzo La matta bestialità (Il Maestrale 2002).
500 chilometri di distanza in linea retta, con il mare di mezzo ed io stanziale per necessità e per indole (lui no: negli anni Visiting Professor fra Dakar, Los Angeles Ucla, Montréal, Yale… nel 2001 a Oxford), non hanno interrotto i nostri rapporti. Io seguivo la sua instancabile produzione saggistica, lui era aggiornato sulle mie sperimentazioni critiche e filologiche dal pianeta letterario sardo; accolse sulla prestigiosa Studi e problemi di critica testuale (2009), da lui diretta, il restauro ricostruttivo del poemetto quattrocentesco in logudorese attribuito ad Antonio Cano (un po’ il Dante della poesia sarda, ragionando in termini puramente cronologici).
Il 21 novembre del 2018 mi scriveva segnalandomi i video delle sue “pillole” registrati per la Società Dante Alighieri, con le parole: «Se il mio antico allievo vuole ascoltare la mia ultima lezione». Fu l’occasione per reimmergermi, come in un rito sacro, negli antichi insegnamenti ricevuti, e recuperai il senso della scoperta emozionata delle prime lezioni ascoltate nella grande aula di via Zamboni 38.
Un anno prima mi confessava: «fedele all'insegnamento del grande Machiavelli, continuo a trarre il cervello di muffa, magari stampando cose semplici come "Il viaggio di Dante", che sta avendo una certa fortuna popolare […] ormai avviato verso gli 83: spero di toccare il 2021, anno del centenario dantesco».
Non ce l’ha fatta, per pochissimo. E non so nascondere lo sdegno verso una sorte dispettosa che non ha permesso il realizzarsi di una speranza per lui così significativa. Ma lui avrà forse guardato il destino beffardo con quel sorriso a labbra chiuse e leggermente protese che s’irradiava per i piccoli occhi sfolgoranti, certo di aver speso bene una vita a conoscere per insegnare.
Grazie ancora, Professore.
Giancarlo Porcu