Storia di vento e di mare, di lentischio e di giunchi, di risacche notturne e di albe nebbiose. Di spiriti inquieti, di giardini di sassi, di uomini e donne con teste, musi e becchi d’animale. Libro secondo, che poi è il primo, firmato da Alberto Capitta, Il cielo nevica, è ora riproposto dalla casa editrice Il Maestrale dopo una prima pubblicazione, nel 1999, con Guaraldi. Vi si narra di Norma D’Apice, venuta da un posto lontano di montagna e di suo figlio Domenico, giardiniere al Compendio Garibaldino. Giardiniere ispirato e tenace che dissoda la terra e la innaffia e fa crescere tra il tufo e il granito rugginosi melograni e pallide zucchine. Si chiama il Fontanaccio, la rustica dimora: un letto di ferro, l’armadio a specchiera e il cane Fedora. Luogo di portenti, come la casuzza cittadina della Maddalena, ma ovunque siano Norma e Domenico esercitano un loro talento magico e divinatorio che molto li fa divertire e non sempre scioglie i nodi della loro ingarbugliata esistenza. Conosce tutte le erbe e i talismani, Norma, i poteri segreti del rosmarino e dell’elicriso, le danze dei pesci re, le parole degli uccelli, il colore dei gusci dei granchi. Una beffarda follia accompagna madre e figlio nei loro giorni condivisi, per un po’, col Capitano Pensiero Centogalli, comandante di traghetti, tassista, fotografo e impresario di pompe funebri. Ma sono il maestrale e le rocce e le sabbie candide di Caprera a fare da terzo elemento vitale in una vicenda che trova in Giuseppe Garibaldi - presenza non del tutto incorporea - un notevole protagonista. Buon cuoco, l’Eroe dei Due Mondi, gioca a canasta e racconta del Sudamerica e di Milazzo, di Calatafimi e Marsala. Bislacco come il suo amico e compagno, il Generale appare e dispare con l’irruenza del soldato e si adegua facilmente a quello scarto di secoli che lo separano dai tempi moderni in cui si svolge il romanzo. Costruita sulla musicalità delle parole, la trama ordita da Capitta è tessuta - in un affascinante impasto - di elementi concreti e dissolvenze irreali. Autore che prende al laccio i suoi personaggi, li piega alla sua scrittura immaginifica, al sabba dei suoi scarti narrativi, alla perfezione di un periodare teso sino alla sfida grammaticale. In uno stile impeccabile e terso, lirico anche nei passaggi grotteschi o crudeli. Varia i toni, dosa umorismo e malinconia e a Norma ridotta a vestire di stracci lascia una trousse di tartaruga. È una regina, quest’arrogante fattucchiera che s’inventa coralli e manti di seta. È contadino, pescatore, muratore, Domenico che quando si innamora, si innamora “a strapiombo”. Perché di donne ne ha avute, almeno due. Rita Gutierres di Calangianus, appassionatamente amata sulla Moto Ape di famiglia, e Rosa Spissu di Sassari, professionista del marciapiede. Nessuno, però, può entrare per sempre nel cerchio fatato di due esseri complementari e quasi indivisibili. Son fatti d’acqua, Norma e Domenico, d’acqua marina. Lei già vecchia, lui che vecchio lo diventa nel rapido succedersi di fatti mai normali né ragionevoli, vivono in sintonia stretta con la natura, con le sue morti e rinascite, con una terra sempre mischiata col sale. È il canto di un’isola, anche, Il cielo nevica. Un post-esordio letterario che molto contiene del bellissimo Creaturine (Il Maestrale 2005), che è stato finalista al Premio Strega e non ha traccia alcuna di regionalismo.