Se un amico vi dicesse di aver letto da poco il libro di un poeta vi verrebbe subito in mente che il vostro amico ha letto una raccolta di poesie. Non pensereste, di primo acchito, che in quel libro il poeta ha deciso, almeno per un po’, di ringuainare il verso per dedicarsi a una comprensione più vasta dell’artista e dei compiti fondamentali che esso è chiamato ad assolvere nel mondo. Ancor meno, forse, vi verrebbe in mente che quel poeta ha scelto di usare lo strumento antichissimo del dialogo, la forma espressiva funzionale per eccellenza alle culture in prevalenza orali.
Geometrie di libertà (Il Maestrale) è tutto questo; è in primo luogo il libro di un poeta, Alberto Masala, che non a caso da sempre fa dell’oralità una componente fondamentale nella costruzione del suo personale linguaggio di confine, ma è soprattutto un confronto che si articola nel tempo, quattro conversazioni sul significato del fare arte, sul ruolo del poeta all’interno della società, sul rapporto col potere, sull’ospitalità come uno dei principali luoghi del sacro.
Dialoghi, abbiamo detto, che Masala ha registrato nel corso degli ultimi vent’anni con giovani intervistatori, rifiutando però di vestire i panni del maestro, o del medium, che si frappone tra gli occhi di chi guarda e la visione diretta delle cose. Ne è nato questo libro che a me pare essere essenzialmente un luogo di riflessione e di contemplazione, se posso azzardare un’immagine metaforica direi una sorta di planetario in cui ciascuno, intervistatore, intervistato e – perché no – lettore, porta in dote le proprie visioni, le proprie mappe e costellazioni, e contribuisce alla fondazione di un nuovo universo.
Tutto questo nasce da una concezione particolare del ruolo di “poeta”. Per Masala la licenza di poeta non si ottiene per auto proclamazione (lo dice in tempi come questi in cui orde di piccoli ciarlatani da social media commettono il reato di esercizio abusivo della professione poetica), ma una tale concessione può essere data soltanto dalla società di riferimento; perché – come dice lui stesso – “la poesia è altro: è la voce di chi ha visto le voci. Il poeta ne raccoglie quelle impedite, le protegge durante il trasporto, le testimonia in un cammino di sintesi essenziale, vicino allo spirito…”
Un libro piccolo e prezioso, allora, capace di smascherare con fermezza e lievità le miserie etiche del modo di fare arte e cultura oggi (“Dire che l’arte è morta non significa niente: l’arte muore nel momento in cui muore il bisogno di liberazione”), un mondo da cui Alberto Masala si è sottratto da tempo. Pur essendo infatti uno dei massimi poeti italiani e pur avendo incrociato nel corso del suo cammino umano e artistico poeti di prima grandezza come Gregory Corso, Jack Hirschman e Izet Sarajlic, difficilmente troverete il suo nome in un’antologia di poesia italiana contemporanea.