Essere giornalisti, buoni giornalisti, non sempre equivale a essere scrittori, buoni scrittori. L'operazione è riuscita a pochi perché troppo differenti sono i due "mestieri" per poter avere in comune uno stesso destino professionale. Il mestiere di giornalista può essere esercitato, e qui non voglio scandalizzare nessuno ma solo esasperare il concetto, senza scrivere neppure una riga; per essere scrittori, cioè narratori di vicende umane, occorre "allineare" su un foglio bianco, nel modo più appropriato, parole, verbi, aggettivi; occorre sapere come le frasi devono essere articolate, quale "suono" devono avere per esprimere un concetto, quel concetto; uno stato d'animo, quello stato d'animo. Per esprimere qualcosa di incisivo, il narratore non può non tenere conto dell'ambiente in cui si sviluppa il racconto, dei personaggi che in quell'ambiente vivono, lavorano, amano, odiano. Chi desidera affrontare la spinosa impresa di riflettere sull'uomo, sia uomo-angelo sia uomo-diavolo, non può prescindere dai mille e mille risvolti di una società che si presenta sempre con le sue contraddizioni, ma anche con i suoi esaltanti stimoli. Essere buoni giornalisti non equivale all'essere buoni scrittori, ma quando i due "mestieri" si incontrano (uso le virgolette perché mi viene difficile definirli appunto mestieri) il mix sforna un prodotto fuori dal comune. La prova la fornisce "Il cattivo cronista" di Francesco Abate che la casa editrice "Il maestrale" ha appena pubblicato (223 pagine, 10 euro), dimostrando quella dose di coraggio (e soprattutto di intelligenza) che manca ad altri sedicenti editori sardi.
Il romanzo di Abate, giornalista con alle spalle un'esperienza professionale che lo ha portato ad assumere un ruolo di rilievo all'interno dell'Unione Sarda, non è il primo dello scrittore che nel '98 ha pubblicato "Mister Dabolina" e l'anno successivo il soggetto cinematrografico "Ultima di campionato", che gli è valso il Premio Solinas. Con "Il cattivo cronista", Abate compie un'operazione originale: rivela il mondo della redazione di un quotidiano, abitato da una fauna multiforme e composita, senza alcuna forma di compiacimento o di mitizzazione. E in effetti, nel libro di Abate il giornale è soltanto un pretesto, il mezzo che consente al protagonista, il cronista appunto, di agire e comportarsi con spavalderia, con arroganza, con umanità profonda, con sensibilità ma anche con disprezzo e cattiveria. Il protagonista emerge dall'intreccio di ritratti, di episodi e di situazioni con una personalità non certamente mediocre, con una carica umana fuori dal comune. Ma, e qui sta un altro aspetto di rilievo dell'opera di Abate, il romanzo non è la storia del cronista cattivo, o meglio non è soltanto quella storia. E' anche un affresco, un mosaico della sua splendida città sul mare, Cagliari, che il protagonista ama e fa amare, nonostante i vizi che in un centro di periferia si ingigantiscono, nonostante le perfidie che questa città nasconde fra le pieghe delle sue periferie. Il racconto si srotola con un ritmo che coinvolge, con uno stile e un lessico che penetra nelle radici gergali senza mai strafare, ma anzi portando linfa vitale in una lingua che rischia la sclerosi o l'imbarbarimento da troppi apporti stranieri. Francesco Abate usa parole sarde, in particolare campidanesi, per dare spessore, corpo, alla frase costruita in alcune occasioni con la struttura propria della lingua sarda. Ricordare la ricerca avviata in questo campo da Sergio Atzeni, lo scrittore scomparso prematuramente, non è fuori luogo. Come non deve essere trascurato Andrea Camilleri con i suoi "intarsi" in siciliano nei dialoghi e nelle descrizioni dei suoi romanzi. Ma è doveroso osservare che Francesco Abate può andare oltre i positivi risultati già raggiunti in quanto la sua visione del mondo è catturata da angolature differenti e complesse. Da tale osservatorio le prospettive non potranno che essere più ampie.