Una scrittura densa, da assaporare parola per parola, per godersi appieno il lavoro di cesello fatto sulla lingua, l'ironia che pervade tutto il romanzo e, soprattutto per i ravennati, l'uso incredibilmente raffinato di un dialetto “italianizzato”, o meglio di un italiano arricchito di espressioni che sono veri e propri calchi del dialetto romagnolo.
Un'abitudine e una ricchezza “tutta ravennate”, almeno secondo Luca Ciarabelli, L'autore del sorprendente Il bambino che fumava le prugne. Un titolo che forse non rende giustizia (ci pensa però la copertina) a un romanzo che parte dallo spunto di un giallo (l'assassinio nella chiesa del Santissimo Apollinare di un certo Asmodeo Baldini) per raccontare una vicenda che affonda nella storia di una città che fu più volte capitale. Vera protagonista del racconto e pretesto per un esercizio di stile che è un vero godimento per l'animo e l'intelletto, Ravenna appare come un luogo sospeso, dove epoche passate e presenti convivono e si sovrappongono (Via Corrado Ricci per esempio è “Via delle Drapperie” in un tempo dall'andamento circolare che si ferma nell'estate caldissima in cui Ateo Bonarroti si trova, finalmente, dopo sedici anni, a indagare su un omicidio.
Il tenente dei Carabinieri è“straniero” e per questo i ravennati con cui parla si prodigano in traduzioni simultanee di quel vastissimo patrimonio linguistico che deriva dalla tradizione dialettale a cui tutti attingono a piene mani.
Ateo Bonarroti è straniero così come lo è lo scrittore Luca ciarabelli, esordiente, originario di Città di Castello, innamorato della città in cui abita da ormai una quindicina d'anni al punto da renderle un omaggio letterario senza precedenti. È lui stesso ad ammettere che lo stile e la scrittura gli interessano ben più della storia e che voleva in qualche modo raccontare una città incredibile, dove ancora, almeno lui, riesce a stupirsi per la storia antica impressa nelle sue pietre (basta sentirlo meravigliarsi, con incanto quasi infantile, all'idea che Dante abbia pregato in San Francesco). Di certo Ciarabelli ha fatto un gran regalo alla città in cui vive, perché a Ravenna un romanzo così proprio mancava. Mancava un libro che la facesse diventare protagonista e non semplice “sfondo”, mancava una voce contemporanea che andasse a ripescare i personaggi che la resero famosa nel mondo, da Teodorico a Boezio. Mancava soprattutto una lingua così, che rendesse l'alto e il basso, l'ironia e la malinconia di questa città placida e misteriosa, intrisa di filosofia e magia (dai veleni a base di prugne alle sedute spiritiche). Le luci della riviera, la spiaggia, il turismo balneare o dei parchi di divertimenti non potrebbero pessere più lontani o più stonati: qui riecheggia la potenza della storia raccontata con il sorriso sulle labbra, di chi, come il solitario Ateo, non si prende mai sul serio fino in fondo. Ci voleva uno “straniero” per scrivere un libro così, ha detto di recente anche Eraldo Baldini, ed evidentemente ci voleva pure un editore straniero per pubblicarlo. A “scovare” questa perla è stato infatti Il Maestrale, marchio sardo che si è distinto negli anni per la qualità delle pubblicazioni e che sta assicurando al libro l'apprezzamento di testate nazionali in un periodo “d'oro” della narrativa ravennate, che annovera anche l'ultimo di Cristiano Cavina e il libro di Eugenio Baroncelli. Una vera gioia per la città che aspira a tornare capitale della cultura.