Mia figlia follia sembra apparentemente inserirsi nel filone del realismo magico, con la sua confluenza di culture popolari, impianti drammaturgici e forza immaginifica ma nel corso della lettura la crescente potenza visionaria rivela una matrice più antica, quella di una vera e propria narrazione “sciamanica”. Vi concorrono tra l'altro la voluta indeterminatezza di luoghi e cronologie (solo indirettamente si comprende essere in una Sardegna senza tempo) che trova man mano il suo fulcro in un cortile desolato, dove incerto è il confine tra vita e morte, con un susino, secco o ancora verdeggiante, che riecheggia, al rovescio, il nespolo dei Malavoglia e, soprattutto, i monologhi tra la protagonista, Maddalenina, la “scema” del paese e la “guaritrice” (che non a caso si chiama Maria Carta) a delineare un contrappunto tra la trasfigurata, folle vitalità della prima e la lucida razionalità della seconda, capace di penetrare la demenza ma incapace di uscire dal “sogno” dove è precipitata. Maddalenina, “scema” ed emarginata nel paese, arriva all'orlo della menopausa per decidere una rivalsa di maternità e di vita che l'ha vista reclusa in una casa senza affetto. È questa decisione, già di per sé guerriera, a scatenare tutti gli archetipi delle Grandi madri: da Mariuccina, sua madre assassina, che l'ha sempre rifiutata, alla stessa Maria Carta che richiama sempre le sue due amiche del cuore, quasi evocando sotto traccia il trio della Parche o delle Grazie; dalla signora bene del paese, la moglie del dottore già compagna dei pochi giorni di scuola di Maddalenina, alle ragazze che infornano torte per vincere l'ambito posto di serva in casa dei Lucente, i centenari, non solo metaforici, del paese. Sono le donne, nel bene e nel male, a essere le protagoniste di questo libro: gli uomini che vi compaiono - i tre mariti che contemporaneamente Maddalenina vorrebbe padri della neoplasia che la gonfia - non sono maschi. Il primo è un allevatore evirato da un incidente (e come non ricordare Attis?), il secondo un ragazzino impubere della stirpe dei Lucente alle prese con un dettagliato suicidio come rivolta al fato della longevità, il terzo un professore di greco in pensione “pederasta”. Come Maddalenina sono anche loro figure eccentriche e solitarie che animano con le loro diverse passioni la “favola” amorosa della protagonista, intrecciata con una scrittura potente per immaginario e affabulazione che in alcuni punti - come nella scomparsa dell'allevatore - raggiunge vette decisamente poetiche. La natura profonda di questa scrittura è evidente anche nella capacità di essere cruda senza mai smarrire l'affetto: “Mia figlia follia” è gremito di morti e di lutti e di mali e tuttavia non è un libro tragico né disperato collocando ogni evento in un fondale di ciclica necessità che riscatta, in una potenza creativa che abolisce, o meglio riunisce, le soglie tra vita e morte, il loro continuo commutarsi e comunicare. È per questo che la conclusione del libro, dove traspare l'impegno teatrale della Massa, è forse la parte che sembra meno convincente: il ritorno alla ratio, alle motivazioni e al senso non può né potrebbe essere all'altezza del viaggio sciamanico che la precede. Siamo di fronte a un libro volutamente “anomalo” di ampio respiro, che riattualizza, mostrandone la fecondità, i temi ancestrali e sepolti del nostro esserci.