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Agosto 1, 2002
Recensione a "Cristolu" di Salvatore Niffoi

L’ultimo romanzo di Salvatore Niffoi, Cristolu, prende abbrivio in una domenica dei morti, con un risveglio: don Frunza inizia la sua giornata di preghiere per le anime dei defunti. Quando si sposta verso il cimitero, c’imbattiamo nel “tombolaio di facce anonime” che si innalzava seguendo linee architettoniche verticali e indiscrete, come “necropoli volanti”. In disparte, don Frunza scopre una grossa scatola di latta sotto un mattone. Dentro la scatola un manoscritto, sulla prima pagina due brevi informazioni:

“Barore Suvergiu, noto Cristolu

Vita e morte di una frate bandito”.

Dunque, fin da principio, realizziamo che il protagonista dovrà soccombere: resta da valutare lo spazio tra la vita e la morte, lo spessore dell’esistenza di Cristolu fino al momento in cui verrà crocefisso. Da questo momento la narrazione si sdoppia, corre su due rotaie parallele: le vicende del frate bandito Barore si riverberano sull’intero paese di Orotho che si dispone ad ascoltarle.

Il raconto di primo grado illustra in terza persona l’impresa di don Frunza: gremire i banchi vuoti della chiesa cooptando gli orothesi indolenti con l’esposizione di una parabola veritiera e sconvolgente, impasto di miracoli e realtà, sulla “inutilità della violenza che acceca e distoglie”. L’omelia profana, letta durante la messa da don Frunza, accoglie la vicenda scritta in prima persona da Cristolu, resoconto delle gesta di un santo mancato, un uomo innocentemente capace di comporre svariati piccoli miracoli neppure troppo complicati.

In occasione di ogni festività, il racconto di Cristolu inchioda gli orothesi sui banchi di fronte all’altare per mezza giornata: eppure la sostanza di un’esistenza si concentra in pochi momenti, in alcuni episodi scarni che compongono le cifre di un destino. Il tempo si dilata se consideriamo il pubblico degli uditori, ma è terribilmente concentrato e viene come distillato in singoli gesti risolutivi del frate bandito.

Per suffragare la sua missione di evangelizzazione, don Frunza deve ricorrere paradossalmente a un testo che possiede la consistenza discutibile di un vangelo apocrifo: un manoscritto la cui autenticità viene effettivamente messa in discussione da alcuni signorotti dell’aristocrazia locale, i quali subodorano un pericolo ancora vago. Già i loro antenati si erano indaffarati a cancellare ogni traccia materiale che riconducesse ai Suergiu, affinché venisse smarrito il ricordo di un personaggio scomodo: “Più si andava avanti con la storia della sua vita, e più si incrociavano altre storie, vissute da chissà chi e chissa quando. Il vero e il falso s’incontravano e si mischiavano come il sangue pulito con quello sporco”. Primo compito di don Frunza è recuperare il filo perduto della memoria.

La vita di Barore segue per lungo tratto un percorso di santità: al culmine, egli abbandona Orotho e approda al convento di Albudero affacciato sul mare. Una cesura brusca viene sancita dal massacro della sorella Pauledda – la fanciulla vergine che nei giochi dei bambini interpretava il ruolo della capra – il cui corpo martoriato è rinvenuto dai cani del capraio. Il rampollo di una ricca famiglia di Orotho prima ha abusato di lei, poi l’ha uccisa; un giovane esponente di quella casta di potenti la cui vita si compone di pochi nodi (“nascita, lotta, possesso, riproduzione e funerale”) che stringono e soffocano le creature più deboli: “Una sequela di aberrazioni che spostavano il tempo all’indietro, a quando l’uomo era una bestia che viveva di odori, rumori e sapori e facevano riflettere e dubitare sulla sua reale evoluzione”.

Dopo una nottata estenuante, Cristolu decide di abbandonare la pace spirituale di Albudero, le imprescrutabili vie del Signore, per una ribellione lucida che non dia scampo:

 

“Chi dice che sia più giusto sopportare e perdonare parla con dolore preso a prestito, con dolore falso. E anche per questi che vivono infilando nel sacco angherie e umiliazioni viene il giorno in cui o si rompe il sacco o si piegano le gambe. Allora non bastano più le preghiere, perché al piombo non si risponde col bastione e al sangue con le lacrime”.

 

Tuttavia, se “ogni generazione aveva il suo Cristo”, allora Cristolu verrà crocifisso “perché voleva il bene dei suoi paesani e la fine dei soprusi”, tanto da costituire un esempio di cristianità in quanto martire che sacrifica la vita per il bene degli ultimi. La parabola recitata a più riprese da don Frunza, tra minacce e rimostranze degli alti prelati, incarna forse in primo luogo la lotta fra la memoria e il male:

 

“Non poteva ritirarsi proprio adesso che ad Orotho, come la luce dopo il buio, confondendo passato e presente, la memoria si contorceva nelle coscienze e ridava a tutti un po’ di coraggio per estinguere il male. I Melonza e i Sioppo nesuno li odiava, ma nessuno li temeva e li rispettava più. Era il momento buono per una resa dei conti senza sangue”.

 

Ecco che i due racconti si intrecciano scambiandosi allusioni e aspirazioni. Barore, insieme a pochi e fidati compagni, mette a segno alcuni colpi mirati a intaccare le sostanze e la sicurezza delle famiglie dei soliti possidenti: infine uccide l’uomo che aveva devastato la vita di Pauledda. La violenza innesca una nuova ritorsione, che porterà al massacro annunciato (ineluttabilmente) fin dall’esordio: la crocifissione. Il potere dei Melonza e dei Sioppo, ora guardinghi ma non meno feroci, rimane stabile e inalterato, senza una reale soluzione di continuità: finchè don Frunza non avrà completato la lettura del manoscritto. Cristolu mette per iscritto la propria esistenza con l’intenzione di sparare sul futuro. La sua piccola rivoluzione si accompagnava a una puntuale opera di registrazione (storica), di memorizzazione. Tuttavia la scrittura non si limita a suggerire un giudizio che scruta retrospettivamente, mentre progetta e matura lo scioglimento finale: una volta che l’intera vicenda di Cristolu e dei suoi aguzzini viene testimoniata, recepita, e corre veloce di bocca in bocca, gli ultimi discendenti fra le famiglie degli arroganti e dei potenti si polverizzano letteralmente, auspicio e sanzione della loro dissoluzione storica, dell’incongruenza morale. I vari Sioppo, Thruccu, Melonza spariscono da Orotho qualche giorno dopo la lettura della “passione” di Barore, quella parte che riguarda il tradimento, la cattura di Cristolu e dei compagni per una manciata di monete d’argento (preludio alla crocifissione finale). L’aristocrazia si dissolve senza lasciare neppure una lettera o un appunto o una parola scritta. Il mendicante pazzo li evoca dalle loro dimore sprangate, con la carriola trasporta i loro scheletri muti fino al camposanto.

L’impegno della scrittura alla fine rende giustizia a Cristolu, esaltando la trasmissione del ricordo, e regala spazio d’espressione a Orotho che si libera della presenza mortificante di poche famiglie di accaparratori privilegiati: addirittura svolge per quanto riguarda don Frunza – il quale dà senso alla sua missione nella vicinanza con gli ultimi, nel rifiuto delle intimidazioni dei potenti – una funzione catartica. Don Frunza, da un capo all’altro della pubblica lettura, muta il giudizio sugli orothesi; all’esordio era convinto che fossero gente buona portata da una personale filosofia all’autodistruzione: “Uomini e donne che già da piccoli si lasciavano corrodere dal tarlo del tempo”.

Il dispiegarsi della narrazione, sbrogliando almeno in parte la matassa degli eventi contemporanei, lo induce ad ammettere che gli “orothesi erano gente filata col filo dell’agave e del ferro, che incassavano ma non dimenticavano, che sapevano subire o perdonare e, quando era il caso, restituire con gli interessi”.

Ogni vicenda, entrambe le narrazioni, stanno dentro la scrittura di Niffoi, che è breve ma dice tutto quello che è necessario per serrare il racconto, e farne scaturire personaggi definitivi; che è rapida ma utilizza uno spettro lessicale davvero molto ampio.

Restano le ultime pagine del manoscritto, quelle apocrife una volta di più, quelle aggiunte con una calligrafia femminile per testimoniare la passione e la morte di Cristolu. Per ricordare che Filina, la bambina più antica del mondo, amò Barore Suvergiu.

La scrittura è anche un atto d’amore.


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