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Settembre 22, 2008
Anime sul precipizio
Un uomo scopre di perdere la memoria e il suo diario diventa l'unico appiglio sull'orlo dell'abisso. Ma se la perdita di memoria non fosse dovuta a una malattia? Se qualcuno avesse architettato l'orribile disegno, attraverso un uso distorto della scienza, proprio per cancellare il passato e costringere a vivere in un perenne presente? Intanto la città precipita nel caos, popolata da spettri viventi. Ne deriva una crescente privazione della libertà e il graduale annullamento delle individualità. E' questa l'ambientazione scelta da Alessandro De Roma (Premio Dessì 2007 con Vita e morte di Ludovico Lauter, sua opera prima) per il suo nuovo romanzo La fine dei giornià (Il Maestrale, 290 pagine, 15 euro). La storia raccontata dallo scrittore sardo (è nato a Carbonia nel 1970) scorre senza rallentamenti: asciutta («La specie trova il modo di sopravvivere anche se a un livello di coscienza più basso») e fotografica («E' venuta giù molta acqua in questi giorni: la città è come un arcipelago di marciapiedi»). Ma forse il maggiore pregio di De Roma è la capacità di esaltare un difficile strumento metaforico: quello della distopia o anti-utopia, o utopia negativa. Le atmosfere inquietanti, tipiche della letteratura distopica, sono quelle del 1984 di George Orwell (scritto nel 1948), Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) e Noi di Evgenij Zamjaytin (1922) e da autori di Science Fiction, da William Gibson a Philip K Dick. Con questa impronta il romanzo di De Roma ha anche il merito di inaugurare un nuovo ripiano nello scaffale dell'editoria sarda.

Come nasce questo libro?
«L'ho scritto tre anni fa mentre abitavo a Torino. E' un libro costruito dopo numerosi sopralluoghi e lunghissime camminate. Mi ero trasferito da poco in città, quindi non conoscevo ancora tutte le sue strade, il che mi ha aiutato a immedesimarmi in un personaggio che si perde in continuazione».

Questa storia affronta temi impegnativi, come la dignità e i diritti. Con quali obiettivi?
«Innanzitutto credo che gli uomini debbano interessarsi gli uni agli altri, non lasciar correre. Indignarsi, se necessario. Entusiasmarsi anche per ciò che scoprono di avere in comune con gli altri. L'patia è il primo rischio di questo tipo di società che ci siamo costruiti. In questi decenni siamo passati dai pericoli dell'utopia a quelli dell'apatia. Abbiamo bisogno ora più che mai di occuparci di politica, di interessarci a ciò che ci circonda, proprio perché sembra che tutto ci spinga verso il disinteresse, il privato, l'individualismo e la chiusura nelle vite familiari. Il rischio è gravissimo. Il mondo potrebbe finire per diventare un luogo sempre più freddo, un oggetto estraneo.»

Quali sono le principali muse ispiratrici per uno scrittore?
«Osservare tutto è la cosa più importante. Essere sempre vigile, lasciarsi coinvolgere. Considero viaggiare e leggere come due attività molto simili. Amo moltissimo leggere, ma i libri non mi bastano. Il viaggio è più sporco, più rischioso, più necessario ancora. Vivere significa per forza correre dei rischi e lo stesso si potrebbe dire dello scrivere. Un viaggio in cui ci si possa anche perdere.Altrimenti che libro è?»

Il romanzo precedente si sviluppava su tre registri differenti. E questo?
«Questo ha una struttura più semplice. Ed è diversissimo nello stile e nei personaggi. Appartiene a un genere preciso e mi piace definirlo un libro di fantascienza. Lo dico con orgoglio, perché è un genere davvero sottovalutato in Italia e poco frequentato dagli scrittori. Ma nel complesso direi che si tratta di un libro molto intimo: innanzitutto ho paura io stesso di precipitare nella demenza, nell'apatia, nel disinteresse verso quel che mi circonda. Ho paura di chiudere la porta di casa e dire: ma sì, facciano di me quel che vogliono: in fondo chi se ne importa? ho tutto quel che mi serve. Invece nulla è più necessario a un uomo della sua propria dignità. E quella talvolta la perdiamo senza avere il coraggio di ammetterlo.»

Che effetto fa sapere che i propri libri saranno pubblicati dal più importante editore francese?
«Per ora si tratta solo del primo. Speriamo che Gallimard decida di pubblicare anche il secondo. Preferisco non pensarci per il momento. La gioia sarà completa quando entrerò in una libreria in Francia e vedrò il libro nella collana di narrativa straniera Gallimard. Ogni cosa a suo tempo. Ma faccio molta fatica a non esaltarmi. Dopo tutto è vero che ho concepito il mio primo libro come una specie di antidoto al narcisismo degli scrittori, ma non ne sono del tutto immune io stesso, temo. Meglio sorvegliare.»

Prossimi progetti?
«Il terzo libro è già nelle mani dell'editore. Ma non credo uscirà prestissimo. E stavolta si torna in Sardegna, a Cagliari: per la prima volta scrivo anche del mio paese, Ghilarza. Per il resto sono in procinto di lasciare la scuola per un anno e fare un lungo viaggio, tra Francia, Germania, Sud-America e India. Ho amici da visitare e lingue da perfezionare. Ho bisogno di fare il pieno di aria e di vita. E di avventure. Farò finta di essere capitato in un libro di Salgari.»


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