Se Gianfranco Bottazzi – sociologo che usa le parole col bilancino dell'orafo – dice che “la Sardegna non è un disastro”, c'è da riflettere. Perché nel libro che esce oggi, edizioni Il Maestrale, “E l'isola va”, sottotitolo “La Sardegna nella seconda modernizzazione” (pagine 192, euro 20) documenta le sue affermazioni. Utilizza, com'è suo metodo, parametri della statistica nazionale ed europea ma impiega poche righe per spegnere gli entusiasmi di chi vorrebbe urlare ai quattro venti di una regione che marcia a gonfie vele. Proprio nelle conclusioni mette in guardia da inopportuni ottimismi e si rifugia in una metafora ciclistica: “La Sardegna qualche volta arranca e ha bisogno di qualche spinta, ma resta nel gruppo”. E spiega: non è “un disastro, o meglio, se lo è, non lo è più di quanto lo siano regioni periferiche dell'Europa come l'Andalusia o la Macedonia, e regioni centrali come la Lombardia o il Baden-Württemberg”. Ecco l'analisi che supera il perimetro tra Serpentara e le Bocche di Bonifacio: “Tutta l'Europa, come il resto del mondo, vive una fase di grandi mutamenti e non sappiamo bene in quanto tempo, attraverso quali sommovimenti e fatiche, potremo venirne fuori”.
Entra nel vivo della società sarda: perché si rende conto che “il giovane o meno giovane disoccupato che trova solo qualche lavoretto in nero e mal pagato”, oppure “il laureato che riesce a trovare solo posti da cameriere o lavapiatti e chi, pur lavorando, fatica ad arrivare a fine mese, mi manderà a passeggiare. Come farebbe, giustamente, quel 15 per cento di persone che si trovano in condizione di povertà relativa”: Qual è allora il guaio, dov'è la spada di Damocle? “C'è un problema di giustizia sociale, di più equa distribuzione di quanto viene prodotto piuttosto che di risorse disponibili realmente”.
Sembra di tornare indietro di 22 anni quando fu Bottazzi, col libro-strenna “Eppur si muove” (Cuec), a esaltare la scuola cagliaritana di Sociologia economica di Scienze politiche e dare uno scossone a un'isola choccata dalle delusioni del sogno industriale, finito tra macroscopiche incapacità imprenditoriali (nazionali e sarde) e tra carte bollate con condanne in aule di tribunale. Stiamo però all'oggi, al nuovo libro e vediamo qualche numero. La Sardegna si situa ancora – come ieri - nell'ultimo quarto delle regioni europee e, in Italia, un po' più in alto delle regioni del Mezzogiorno. È fra le regioni “in ritardo di sviluppo”. Un ritardo – e qui le parole sono pietre in un pentagramma di vizi capitali – “economico, nelle strutture sociali, nelle istituzioni politiche, nei modi di essere e di pensare”. Certo. “Dopo trent'anni i Länder orientali hanno un reddito procapite inferiore del 30 per cento della media tedesca e del 50 per cento rispetto ai Länder più ricchi”. E poi la staffilata: “L'Italia è riuscita a fare ancora meno dopo settant'anni”.
Quanti guai. È sempre una Sardegna ricca di terreni incolti che non producono, vive di importazioni (agroalimentare compreso con l'eccezione salvifica dei vini e dei formaggi), l'export principale è legato alla raffineria della Saras, i servizi “rappresentano l'80 per cento della ricchezza contabilizzata” mentre “l'immobiliare pesa di fatto quanto agricoltura, industria e costruzioni messe assieme”. Un immobiliare che “non misura l'attività costruttiva delle strutture murarie ma il profitto di compravendite o locazioni”.
Un'osservazione principe: “La dipendenza è il segno caratteristico della storia economica sarda” dominata da “meccanismi di tipo coloniale, scarsa la capacità di innovare”. E l'istruzione? Guardiamo non solo la dispersione scolastica ma “gli scarsissimi investimenti in ricerca e sviluppo e le interazioni con la ricerca universitaria”. E “la diffusa abitudine al lamento”, e “il sentiero della dipendenza” detto “path dependence”? Qui si aprono voragini da scandagliare. Verranno fatte in una tournée che dal 4 marzo vedrà Bottazzi confrontarsi con commentatori a Cagliari, Nuoro (11) e Sassari 16 marzo).
Giacomo Mameli
La Nuova Sardegna 16 Febbraio 2022