Una donna e un convento, forse ieri, forse mille anni fa. In alto una chiostra di monti a chiudere la teca di un paese. Una pennellata del Film Rosso di Kieslowski, perché a farla da padrone sembra lo stesso Caso, imprevedibile e capriccioso signore. A seguire, una spolverata delle labirintiche strade a perpendicolo di Robbe-Grillet, dove muove, senza vie d’uscita, la protagonista della storia. Quindi una buona dose dell’Orwell di 1984 e il controllo di mente e gesti quando la libertà già non c’è più, e spadroneggia una tirannide ora orgiastica, ora dolciastra e infida, la cappa buia su cui camminano i personaggi di ogni sudditanza.
Riferimenti e colori che vengono in mente a scorrere le pagine dell’ultimo libro di Maria Giacobbe, Euridice, edito da Maestrale. Con questo titolo grondante mito, la scrittrice nuorese si ripresenta all’appuntamento con il vasto pubblico dei suoi lettori, pur essendo residente in Danimarca da molto tempo. Se il titolo rimanda alla perenne verità del mito, il racconto non è la sua ennesima variazione dentro un immutabile anello atemporale, ma una vicenda calata nella Storia e in una Guerra, emblema di tutte le guerre, nella quale vorticano la protagonista e gli altri personaggi, definiti con nomi generici, secondo alcuni dettami dell’espressionismo tedesco, e coerenti con il simbolismo del testo.
Stavolta, però, non c’è nessun Orfeo che rivuole indietro dall’Ade la sua bella ninfa, e non c’è alcun baratro reale a contenderla al suo amato, immemore della promessa di non guardarla. Un altro mondo e un altro abisso ci vengono raccontati, e un altro modo di sopravvivere di questa nuova Euridice.
Richiamata alle cose e alla vita dal "tu" della voce narrante che la interpreta e sollecita a comporre brandelli di ricordi, abiezioni fisiche e morali. Con il dolore intenso e dilatato nell’argine di un letto di contenzione. Stampato sulle mani contratte, sul ventre afflitto, a segnare la singolarità femminile.
Una storia rarefatta, narrata con tocchi surrealisti, che risponde a imperativi diversi. Dal tempo che si spezza e ricompone, ai «labirintici specchi della coscienza». Lo specchio e il labirinto, appunto, le modalità predilette per riflettere l’immagine di una donna duplice e triplice, creatura altrettanto attendibile di differenti spicchi di realtà.
Inaugura un nuovo modo di narrare, Maria Giacobbe, in parte presente nel precedente “Chiamalo pure amore” con il "doppio" e l’abbraccio circolare fra il primo e l’ultimo racconto, e con la guerra, inquietante presenza sullo sfondo, conflitto mondiale o regionale poco importa. Anche qui, come nell’altra opera, i sentimenti resistono. Come le passioni. Dall’illusione amorosa verso un uomo e l’attrazione per la sua età matura - lontana da un’adolescenza inquieta - a un altro amore. Sfocato. Giovane. Vero.
Ciò che piega la mano alla scrittura pare l’amara percezione del momento attuale che orienta verso il pessimismo. Non è casuale che la salvezza sia rappresentata dal topos della montagna. In alto si pone la speranza. Raggiungibile? Forse sì, se c’è chi ha il coraggio della verità in un mondo in cui pensare è vietato e si conculca il libero pensiero e lo si controlla. La verità di un volto e una bocca giovani in questo testo ricco di segni. Dove, ancora, la salvezza? Nella dimenticanza? Per un attimo Euridice abbandona il corpo logorato e lacero. Lascia deserto il corpo prima abusato. A chi si aggrappa Euridice, per non cadere nel baratro? Ai ricordi che, come pietre, le rotolano addosso? alla guerra che con la sua rapina la travolge? all’attesa passiva della verità?