A tie solu bramo (in lingua sarda voglio solo te), seconda parte di un verso della celebre canzone d’amore Non potho reposare, è anche il titolo dell’ultimo romanzo di Giulio Neri, uscito per Il Maestrale nel settembre del 2018.
La storia narrata da Neri si sviluppa tra Piemonte e Sardegna nel periodo che va dall’agosto 2013 all’ottobre 2016. Principali attori dell’articolata vicenda sono Orlando Mahfuz, anatomopatologo e imbalsamatore nato a Cagliari ma di origine egiziana, e la misteriosa Clelia Boero, cinquantenne trasferitesi da Torino in un non meglio definito paese del Sud della Sardegna.
La passione che lega i due sembra segnata da l'inevitabilità della distanza. Come se l’ossessione di Orlando verso la morte, che si declina non solo nei suoi mestieri ma anche in un continuo vezzeggiamento della fine, si versasse in qualche modo nel suo rapporto con Clelia. Di più: la stessa Clelia, come ogni persona toccata da Orlando, porta in sé i segni della morte. Se nei casi dalla moglie Rajae e del figlio Nadir (un nome emblematico) si tratta solo delle conseguenze psicologiche del rapporto con un uomo egoista, affascinante ma irrisolto, Clelia - probabilmente colei che più profondamente intrecciato la propria vita a quella di Orlando - ne subisce l’influsso in maniera drammaticamente concreta, ammalandosi di un male incurabile.
Clelia pare assumere su di sé anche il peso di una sconfitta generazionale: ex gestrice dell’Alphaville, un cinema d’essai di Mirafiori nel quale peraltro ha conosciuto Mahfuz, in passato è stata vicina alla sinistra extraparlamentare. Di quella tensione rivoluzionaria, alla Clelia cinquantenne non restano che alcuni feticci ormai svuotati di ogni significato simbolico, come l’eskimo, e alcuni vecchi compagni di lotta, come Gabriele che “a quarantanove anni porta i capelli lunghi raccolti in una coda, e la stessa barba a chiazze di quando era ragazzo” (p. 36).
Il romanzo è popolato da una nutrita serie di figure minori, in qualche modo legate al passato o al presente di Clelia e Orlando, che però non sono riuscite né riescono a determinare svolte essenziali nell’esistenza dei due: le lambiscono, tentano di decifrarle ma non vi incidono.
È che ciascuno in A tie solu bramo pare incapace di mettersi davvero in relazione con l’altro. O per l’isolamento del proprio ambiente, che tiene chiusi in una fissità comportamentale e psicologica più tenace di ogni volontà di apertura al mondo, come si intuisce da questa dichiarazione di provincialismo di Alfredo, bibliotecario del paesino sardo, subito sconfessata da Clelia: “– Chi ha sempre vissuto in una grande città non può capirlo. Tutto in provincia è più squallido, opprimente. – A Londra o a Parigi, o a New York, c’è la stessa infelicità. Non si hanno amici, la gente va in analisi, si vivacchia e ci si lagna proprio come qui…” (p. 22).
Oppure, viceversa, l’impossibilità di disporsi a un autentico dialogo deriva da un eccesso di apertura, dall’aver votato la propria esistenza all’altrove: così è per Rajae, moglie di Mahfuz e reporter di guerra in Medio Oriente.
Ad aleggiare sul romanzo è un diffuso senso di disfacimento, tanto degli ideali quanto dei progetti personali. Esso talvolta è anticipato come da segni premonitori: ad esempio il cinema Alphaville, destinato a chiudere per fallimento, era situato in Corso Unione Sovietica. E di nuovo, al pari della malattia di Clelia, una metafora si fa corpo: Clelia e Mahfuz si conosceranno all’Alphaville la notte di Natale del 1991, un giorno prima della data ufficiale della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
È un coraggioso espediente narrativo, il fatto cioè che i dieci capitoli di cui si compone l’opera sono presentati in ordine cronologico inverso, a svelare in modo straniante questo senso di disfacimento: intanto, più si prosegue nella lettura e più la scoperta delle cause di determinate scelte (di cui evidentemente si conoscono già gli esiti) induce a pensare che ogni accadimento derivi da inclinazioni - quando non da ossessioni - private, come l’attrazione di Mahfuz per la morte; non dai rapporti, dunque, scaturisce la vita.
Inoltre, scoprendo poco per volta il passato sempre più remoto dei personaggi, si ha l’impressione che nessun percorso esistenziale sia un progresso, e che le relazioni possono esistere solo per il breve tempo in cui si consumano, come esito della frizione tra due personalità, in cui spesso una contamina l’altra: “Adesso gli sovviene il racconto di Rajae, la crisi suicida Sarajevo, il davanzale per alcuni secondi, eccetera. Doveva averla indotta o quasi istigata, ma nemmeno lei si era spinta a quel passo: – proprio all’ultimo istante, – gli aveva confidato, – Nadir è apparso come un angelo, – a dissuaderla, a salvarla. Da non credere quanta forza occorre per lasciarsi andare, e quali scuse, poi, si tirino fuori” (p. 185).
E anche il testo di A tie solu bramo, brano cantato, amato e persino inciso da Clelia, esprime in fondo non un amore compiuto ma il desiderio di una persona assente. Come se gli umani sapessero al più struggersi nell’illusione di ciò che potrebbe accadere: salvo poi procurare, le cose che accadono, conseguenze del tutto irrelate ai fatti; conseguenze che, nella loro univocità, assottigliano sempre più il destino. Le vite si colmerebbero di possibilità, sembra dirci Giulio Neri, solo se lo potessimo vivere al contrario.