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Agosto 1, 2001
Il gioco del mondo

"Gioco del mondo", "marella", "strascico", o anche "campana", "settimana", o, come dicevamo al mio paese, "pincadeddu": nomi diversi per uno stesso gioco al quale bastava un pezzo di cortile o di strada in terra battuta e un sasso piatto. Il gioco del mondo (Il Maestrale 2000) è ora il titolo del quarto libro di racconti brevi che Giulio Angioni ci regala dopo A fogu aintru (1978), Sardonica (1983) e Lune di stagno (1993). Come negli altri tre, anche in quest'ultimo ritroviamo personaggi, situazioni, mestieri, gesti, parole, oggetti della Sardegna contadina, che l'autore "racimola" e "ricompone" in scrittura per renderne possibile la memoria tanto a chi, per ragioni anagrafiche, può dire con sgomento di aver conosciuto quel mondo "già durato millenni, terminato di colpo ieri sera", quanto a chi è venuto o verrà dopo, in un tempo in cui, "forse, chi lo sa, anche di un mondo come questo si vorrà commemorare l'essere esistito". Il ricordo, unica cura possibile contro i danni del tempo, unica risorsa che rende sopportabile ogni passato e non temibile il futuro, deve essere attivato con "furbizia", con consapevole "artificio". E l'autore, maestro di quest'arte, fa resuscitare i suoi personaggi come in un dies irae, "quando non ci sarà più cielo e mare, isole e terraferma, ma solo un grande scrigno di ricordi, belli e brutti, a chi belli e a chi brutti e buona notte". I personaggi rivivono in una galleria di ritratti, in una processione di figure riviste o rievocate nel corso di una sorta di "visita" del narratore al suo paese, ancora Fraus. Più che nella trama di un racconto, essi sono rappresentati in un carattere essenziale, in un aneddoto, in un detto, che sintetizza il loro destino. Ognuno con il proprio destino, riconosciuto e accettato, come Maria Desolazione che, "ventisette anni e mezzo cronica in un letto, qui a Fraus, sempre a casa sua", "ha preso sul serio la sua parte, della santa martire, del parafulmine contro le ire del Signore, di chi col suo dolore dava scopo e senso a tutto il dolore che per ventisette anni è toccato a Fraus […] si è specializzata nel dolore, ci si è aggrappata, alla sua infermità, come nel naufragio a una tavola di salvezza". E' così: nel mondo del quale questo libro canta la fine, l'individualità non coincide, come nel mondo attuale, con uno stereotipo sociologico, ma con il dato irripetibile che dà senso ad ogni esistenza, e suggerisce che, forse, quella capacità di "rassegnazione" fosse tutt'uno con lo spirito di tolleranza, che noi tanto invochiamo ma non riusciamo a trovare. Data la peculiarità irriducibile di ogni personaggio, questa galleria di ritratti non è riassumibile. Il primo incontro è con Pietro, un vecchio compagno di scuola, ora contadino meccanizzato, che "parla di altri tempi, di quei nostri tempi". Ma non sono le sue parole a risvegliare i ricordi; anzi, le cose che lui dice suonano false al narratore, "inventate". I ricordi, invece, cominciano a fluire in virtù di una scena osservata durante questo colloquio: "Lì fuori, nel cortile della casa di Pietro, la figliola che prima ci ha portato da bere seria seria, più seria ancora adesso gioca alla marella, al gioco del mondo, allo strascico. E' una festicciola di mosse, passetti, moine con la voce. Così nuova e diversa e così uguale a noi che alla sua età giocavamo a quello stesso gioco, ma in strada, in pubblico, non così in privato, mai così chiusi in casa…". Così nuova e diversa e così uguale: è uno dei tanti endecasillabi che ritmano la prosa di Giulio Angioni e ne rivelano l'impulso epico-lirico, ed è il primo dei tanti confronti tra passato e presente.che il racconto memoriale apre e lascia in sospeso. Perché "prima era peggio ed era meglio, già, era meglio ed era peggio", come dice tziu Pineddu Maxia, il carabiniere filosofo, che "si perde confuso […] dietro questo dubbio, stanco". Nessuna apparente organizzazione del racconto, nessun titolo che guidi la lettura, capitoli distinti solo da un numero, e dentro i capitoli cesure marcate da semplici spazi interlineari. Come il sasso scorre da un riquadro all'altro nel "gioco del mondo", così la narrazione si snoda da un personaggio all'altro seguendo il filo invisibile ma saldo delle associazioni. Associazioni spaziali, come quelle che connettono i discorsi dei vecchi sotto il campanile (cap. 4), o le figure che il narratore evoca ripercorrendo il suo vicinato (cap. 5) e i sentieri del cimitero (cap. 6); associazioni tematiche, come quelle dei capitoli settimo (le passioni e le delusioni politiche di ieri e di oggi) e ottavo (la solitudine assoluta e allucinata di personaggi portatori di "una tristezza così grande che metteva l'allegria"); associazioni per analogia e per opposizione, come quella che a Giorgi Maschio-femmina (che indossava "un grembiule davanti ai pantaloni", "portava l'acqua con la brocca in testa o sopra l'anca, con eleganza ineguagliata da chi aveva tutti i titoli del gentil sesso" e "intrecciava le più belle palme del paese, da benedire in chiesa la Domenica delle Palme") fa seguire Ada Maschio (che "amava coltivare vizi da omaccione" pur avendo "il fuoco negli occhi", "trottole per seni e mani leste a ricercare il talismano che gli uomini nascondono"); e soprattutto associazioni verbali, fatte di singole parole-chiave, veri uncini della memoria, che trascinano con sé catene di personaggi. Il termine cucire connette il ritratto della devota Costanza Cosiculus (così detta perché "cuciva il culo" delle tortore che venivano portate in processione ai piedi della Madonna della Candelora, affinché non sporcassero i pannolini ricamati) con quello di tzia Titina (che praticava "l'arte antica del taglio e del cucito" nel suo "ateliè"); l'"inferno di scintille" che l'arrotino sprigiona dal suo trabiccolo, "un poco tornio e un poco bicicletta", richiama la "nebbia di scintille" della bottega del fabbro tziu Mundicu; la "voce altissima" con cui tzia Desideria modula "in canto disperato" lo "sfogo di ogni giorno"("La giustiiizia vi cooorra!… ecc.") trova un'eco nella "voce di Mundica Sanna", che "teneva tutto il mondo sotto un continuo giudizio di condanna, su cunnu 'e tottu cantu", perché "vivere le faceva troppo male"; e così via. Perciò di Fraus, luogo reale e simbolico che la narrativa di Giulio Angioni ci ha reso familiare, sentiamo sì gli odori ("di cera", "di basilico, di menta, di marialuisa, come nell'orto dopo che è piovuto", "del siero e del formaggio", di stoppie, di terra) e i sapori ("la pera era il sapore dell'agosto, la pesca di settembre e le ciliege il vanto della tarda primavera"), ma soprattutto ne sentiamo i suoni: il suono delle launeddas di zio Cocco ("lui sì che ce ne aveva di musica dentro il corpo per far ballare la vita, ajò!"); la voce di Titinu Vargiu, che ad ogni ritorno della cattiva stagione, "come punto dall'argia canterina", accompagnava la sua solitudine con "canti sacri e profani, vecchi e nuovi, di chiesa, di radio e televisione"; il tremulo e sommesso grido ("Ous, ous!") di tzia Annetta Cieca che comprava uova e con esse "guariva storte, lussazioni, ossa rotte, ferite, gonfiori, foruncoli, misteriosi malanni femminili e altri guai…"; e tutte le altre voci, i canti, le poesie e le filastrocche, le sentenze e le imprecazioni degli uomini, e "quel parlare delle cose" che è come il brusio della vita, e il silenzio, "il silenzio terribile dove la morte mugghia a bassa voce". Il narratore orchestra questi suoni cercando di rimuovere le dissonanze dovute alle interferenze del presente. E fintanto che si aggira tra le tombe della sua Spoon River, rievocando una "turba di gente che mormora in coro ricomposto in armonia, senza più tempo da scandire", la sua "visita" può anche avere la dolcezza pacificante che viene dalle cose concluse. Ma nel confronto coi vivi risulta chiaro che la sua è una di quelle visite imbarazzanti che ristabiliscono un contatto provvisorio solo per sancire l'irreversibilità di un distacco. I suoi coetanei gli danno del lei, lo chiamano dottore, imbarazzati: "mi sta davanti di traverso, tiene la testa bassa, fissa gli occhi altrove, mi mostra il collo luccicante di sudore. A me fa male, sembra quasi un'offesa, come un'antica fidanzata che ti dà la mano con due sole dita tutte molli". Il narratore sa perché: "io sono andato via senza ritorno, dunque ho dimenticato e sono stato dimenticato". Senza ritorno o -che è lo stesso - senza saper tornare, come Ennio-Paramount (così detto perché "faceva il cinema" su un lenzuolo in un vecchio magazzino), che, dopo essere partito per l'Argentina "maledicendo Fraus", "è tornato male": "c'è chi non sa tornare, dicono di lui, perché non si tratta di un viaggio, ma di un'arte lunga, ritornare al paese". Il narratore parla di Ennio, ma sa che noi lettori penseremo: de te fabula narratur. Da questa prospettiva, tutti i ritratti di questa galleria ci appaiono come perle di memoria incastonate nella massa dolente di un rimorso, di un disagio, alla luce del quale si può ripercorrere, come un macrotesto, l'intera quadrilogia dei racconti, anzi, l'intera produzione narrativa di Giulio Angioni. Un macrotesto ancora aperto - se è vero, come si dice nel Gioco del mondo, "che non si finirebbe mai, che mancherebbe a un certo punto anche la carta, per ricordare tutti i degni di ricordo" - e caleidoscopico, composto di storie, frammenti di storie, personaggi, situazioni che ritornano spesso, da una raccolta all'altra (per esempio il carrettiere tzi' Antonicu del Gioco del mondo lo conosciamo fin da A fogu aintru, dove si chiamava Affonziu Mereu; il dottor Zedda, che ritroviamo a Fraus nell'ultima raccolta, in Sardonica transitava per la stazione centrale di Zurigo, ecc.) e dalle raccolte ai romanzi (in Martirio oscuro e in Arricchetteddu di A fogu aintru c'era già il nucleo del Sale sulla ferita; Il mestiere di Tore di Sardonica anticipava climi e ambienti di Un'ignota compagnia; ecc.), lasciandoci intravedere, da un lato, il laboratorio dello scrittore, dall'altro, il filo di un'altra storia che ha come protagonista la figura cangiante ma sempre riconoscibile deputata a svolgere il ruolo di narratore. In A fogu aintru e in Sardonica il narratore si era interrogato sulle trasformazioni della Sardegna contadina prendendo le debite e ironiche distanze da un folklorismo insieme scientista e nostalgico, e aveva mostrato di credere che dal privilegio di poter integrare in sé lo sguardo "esterno" dell'antropologo e lo sguardo "interno" di chi quel mondo lo ha vissuto e se lo porta nella memoria,.sarebbe scaturita una più equilibrata e attendibile conoscenza, utile anche sul piano politico e ideologico come "contributo a far crescere la consapevolezza di ciò che siamo diventati" (A fogu aintru). Effettivamente, nei racconti di quelle due prime raccolte, la complessa prospettiva "dall'interno-dall'esterno" si rivelò di indubbia efficacia ermeneutica e artistica nella rappresentazione dei mutamenti e delle resistenze della cultura contadina sarda; eppure la narrazione originalissima delle avventure dei personaggi di Nuraddei (Fraus non era ancora nata), ambientate in Sardegna o in Europa, approdava ad un'essenziale incertezza, non già sulle forme di quella cultura, ma sulla direzione del suo divenire. "Il passato ormai è sepolto per sempre", asseriva il prete dell'ultimo racconto di Sardonica, senza però riuscire a decidere se sarebbe stato meglio "sottolineare questa sua sentenza con un purtroppo o con un finalmente". Quanto questa incertezza abbia pesato sul successivo itinerario narrativo di Giulio Angioni si può cogliere osservando che tra Sardonica e Lune di stagno, ovvero tra le prime due e le ultime due raccolte di racconti, si interpongono i romanzi L'oro di Fraus (1988), Il sale sulla ferita (1990) e Un'ignota compagnia (1992). Tre romanzi "gialli", che mi sembrano significativi (soprattutto i primi due) del tentativo, non tanto di sciogliere l'incertezza a cui erano approdate le prime due raccolte, quanto di superarla per paradosso, enfatizzandola e dandole funzionalità artistica. Questo mi sembra il senso dei "gialli", che ripropongono come un enigma il problema della cultura sarda (sarebbe interessante verificare se nei tanti altri romanzi "gialli" della produzione sarda recente - quelli di Mannuzzu, di Marrocu, di Muntoni, di Fois, di e di altri - si possa ritrovare lo stesso senso). Il nome Fraus (etimologicamente "frode"), dato al luogo nel quale si avviluppano i nodi dell'intreccio, ci dice che l'enigma è frutto di una menzogna (analogamente, si chiama Faulas, cioè "bugie", il paese eponimo del romanzo di Luciano Marrocu). C'è, dunque, una menzogna che rende indecifrabile la realtà sarda? e, se c'è, qual è? Giulio Angioni ci lascia intuire quale sia e chi ne sia il responsabile quando attribuisce il racconto di Il sale sulla ferita alla penna di un narratore che svolge un'inchiesta su una misteriosa morte violenta, sebbene molti indizi facciano capire che egli dovrebbe sapere già, fin dal principio, come sono andate le cose. Questo narratore è uno di Fraus che, partendo dal suo paese, ha abbandonato casa, cultura, classe sociale, e, ramingo come Caino, non trova pace in nessun luogo. Dopo aver lavorato per anni a cancellare i segni delle proprie origini, a uccidere in sé il passato, ora lo mitizza, credendo che ciò gli valga a ricongiungersi con coloro che ha abbandonato, mentre si accorge che essi non vivono più in quel passato, ma in un altro presente, che egli non sa e non può condividere. Torna a Fraus da antropologo e traveste il suo senso di colpa da interesse scientifico. Così, la forma del racconto-inchiesta si rivela funzionale, non tanto alla chiarificazione di un "mistero", quanto alla ricerca del fantasma della sua identità; e la fedeltà con cui egli registra le testimonianze dei frauensi è frutto, più che del suo metodo scientifico, dell'ansia di non tradire di nuovo il suo mondo d'origine alterandone la voce. Sarebbe dunque l'intellettuale il responsabile della menzogna che rende indecifrabile la realtà sarda? proprio l'intellettuale-etnologo che nelle prime raccolte confidava nella potenza conoscitiva della sua ottica complessa e multiculturale e che invece si scopre incapace di integrare le sue successive e diverse identità perché vive l'accesso alla Cultura come un tradimento, come un'acculturazione che lo costringe o a rinnegare le proprie origini o a macerarsi nel rimorso? Sarebbe lecito sospettare che questa sindrome, in altre forme, si manifesti in altri scrittori che vengono identificati con l'appellativo "sardi" non tanto perché se ne voglia rimarcare l'appartenenza regionale, quanto perché la loro scrittura batte e ribatte come su un punto dolente su tematiche sarde. Sarebbe anche lecito verificare questo sospetto, ma, qui, inopportuno. Dopo averlo "smascherato" nei suoi romanzi, Angioni rinuncia a quel tipo di narratore dal duplice sguardo del quale si è servito fin dai suoi primi racconti. Così, quando con Lune di stagno torna ai racconti brevi, affida la funzione narrativa ai personaggi, tutti con sguardo e voce interni alla realtà narrata. Esemplare di questa nuova modalità è il monologante capraro-filosofo di Il mare (un capraro vero, Francesco Gregu, lo ha incarnato nella bellissima e conturbante messa in scena di Gaetano Marino per l'"Isola teatro"), figura sospesa tra terra e mare, passato e presente, economia agro-pastorale e consumismo. L'antropologo in questa raccolta parla ancora, ma nella veste disciplinare che gli è propria, come nel bello e illuminante brano intitolato Sartiglia. Ora, in Il gioco del mondo, il narratore torna ad essere uno di Fraus, un intellettuale portatore di un rimorso, di una frattura non risolta, per essere partito e mutato, e per non aver saputo o voluto apprendere la difficile "arte" del "ritornare". Ma ora la "colpa" è dichiarata, e la nostalgia per il mondo della fanciullezza non cerca più la copertura dell'indagine antropologica o poliziesca, ma si abbandona al flusso affettivo dei ricordi. Ora il narratore sa che quella frattura è insanabile, che il gioco del mondo non si può giocarlo contemporaneamente in due cortili. E tuttavia questa consapevolezza non sana la contraddizione, né la rende meno dolorosa, come dicono gli stridenti ossimori dei versi di Giorgio Caproni che l'autore cita in epigrafe: "Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua dove non fui mai" (da Biglietto lasciato prima di non andar via).


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