«Lasciato il lavoro, lasciati i negozi, lasciata la vita cittadina, si ritrovavano lui e lei, soli, senza figli, coniugi agiati, con abbastanza soldi da trascorrerci tutta la vita, e con abbastanza placidità da affogare come in un oceano dall'apparenza calmissima, ma con mulinelli profondi e oscuri che rapiscono e schiacciano sul fondo». La differenza che passa tra uno scrittore e uno scrivente - cioè tra chi scrittore lo è per nascita, e chi invece cerca di esserlo o, peggio ancora, di farlo - si misura anche attraverso brani come quello riportato, tratto dal terzo romanzo di Alessandro De Roma, «Il primo passo nel bosco» (Il Maestrale, 208 pagine, 17 euro). Non è da tutti, infatti, riuscire a racchiudere un universo interiore in un numero così esiguo di tratti, in quella che è poco più di una pennellata, specie poi se quello descritto è un moto dell'animo che, potenzialmente, riguarda la vite di ognuno di noi, e non solo la specificità di un occasionale personaggio di fantasia.
De Roma torna in questa sua nuova e riuscitissima prova a indagare, come ai tempi del debutto, le sacche nascoste di anormalità che si ritagliano uno spazio, via via sempre più ingombrante fino a diventare preponderante, all'interno della più mite e grigia normalità. È così che Serafino Pinna, sputato fuori da quel nebbioso e quanto mai anomalo luogo che è Ghilarza, cresce e vive segnato da una perenne insoddisfazione che lo mette in continua competizione con sé stesso, alla ricerca di un limite ogni volta più difficile da superare. Il suo carattere, però, non gli impedisce di sposare Amalia, ricca commerciante cagliaritana ed esempio limite di devozione cristiana, e di andare a vivere con lei nell'esclusiva e tranquilla comunità di Scoglio Fiorito, appena fuori il capoluogo. È qui che la normalità, sotto forma di gruppi di preghiera e benessere materiale, mostra quanto labili siano i suoi confini; è qui che il rigagnolo nero che si nasconde in ognuno di noi raggiunge e contamina quel sangue che abbiamo sempre ritenuto buono, guastandolo irrimediabilmente.
«Il primo passo nel bosco» ha il ritmo lento e l'incedere avvolgente dei film cospirazionisti del Roman Polanski d'annata - quello de «L'inquilino del terzo piano» e di «Rosemary's baby» - in cui il male si annidava là dove non ci si sarebbe aspettato, tra gli appartamenti di un anonimo condominio, o perfino all'interno di un grembo materno. De Roma punta più sul taciuto che sull'accumulo di dati e situazioni, ma evita di lavorare di sottrazione, cioè di impoverire inutilmente la sua storia, alla ricerca magari dell'effetto o della sensazione: solleva misteri senza l'ansia di spiegare apertamente; dà voce ai mostri, ma senza che debba essere la sua fantasia a generarli: è semplicemente bravo, estremamente bravo, a farli emergere dal fondo dell'animo di ognuno di noi. Dimostra, insomma, di avere tutte le capacità che occorrono per essere considerato uno scrittore.