Il pranzo a base di piatti tipici della cucina barbaricina, preparati dai pastori di Orgosolo, che le agenzie di viaggi vendono regolarmente ai turisti per un’immersione esperienziale nella “Sardegna più autentica”; la folla cosmopolita che segue “Time in Jazz”, il festival organizzato da Paolo Fresu che ogni estate, dal 1988, raccoglie a Berchidda, un piccolo paese della Gallura, il meglio della musica afroamericana, tra performance di star internazionali e percorsi di sperimentazione. Due situazioni apparentemente molto lontane, che però qualcosa in comune ce l’hanno. Entrambe producono reddito, ricchezza. Entrambe inseriscono stabilmente due piccoli centri, Orgosolo e Berchidda, fino a ieri soltanto terre di pastori e di contadini, nel circuito del turismo, settore che per l’isola, dopo la crisi ormai irreversibile dei grandi poli industriali nati con il sostegno statale negli anni Sessanta-Settanta del Novecento e dopo il declino delle produzioni legate al mondo agro-pastorale, rappresenta economicamente il futuro.
A dare un’idea delle dimensioni, un report del Centro internazionale di studi sull'economia turistica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, realizzato nel 2017 prima del gelo pandemico, informa che a fronte di un budget di 500.000 euro impiegato per organizzare “Time in Jazz” l’indotto economico per ogni euro speso è di quindici euro lordi, di cui sette netti. Significa che il festival porta nelle tasche dei cittadini di Berchidda tre milioni e mezzo di euro per ogni edizione. Ma c’è un’altra cosa che i pranzi dei pastori insieme con i turisti nel cuore della Barbagia e la ribalta jazz in Gallura hanno in comune.
Entrambe le esperienze mettono in gioco elementi tipici di contesti unici rispetto a tutto ciò che non è Sardegna: nel caso di Orgosolo il mondo agropastorale con le sue peculiarità in termini di codici culturali; nel caso di Berchidda, festival diffuso su un territorio che ormai coincide con quasi tutto il Nord Sardegna, il paesaggio e la particolarità dei contesti storici ad esso collegati, compresi borghi e siti archeologici. Entrambe le esperienze, quindi, valorizzano economicamente un’identità.
Tanti altri casi come quelli di Orgosolo e di Berchidda (che però, come vedremo, per altri aspetti si differenzia molto rispetto al pattern barbaricino) hanno segnato e segnano la storia più recente della Sardegna. Il libro curato da Paolo Dal Molin Creazioni identitarie. Arte, cinema e musica in Sardegna, dal secondo dopoguerra a oggi (Il Maestrale, 2022, 559 pagine, 25 euro) li mette insieme e li analizza usando gli strumenti del pensiero antropologico, della sociologia, della semiologia e della ricerca storica, con in più un corredo di testimonianze dirette, raccolte per lo più in interviste con cineasti, musicisti, artisti, operatori culturali protagonisti dell’attuale scena creativa sarda. Va subito detto che il volume supera di molto le ragioni strettamente legate ai confini regionali. Mettendo al centro, infatti, l’analisi del rapporto tra peculiarità culturali locali e processi più generali attraverso i quali passa la definizione di ogni specifica connotazione identitaria, il libro problematizza il concetto stesso di identità, la sua rilevanza analitica e il suo statuto epistemologico.
[continua a leggere su Doppiozero]