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Marzo 25, 2012
Savina Dolores Massa – Ogni madre

 

 

    Come qualcosa
che sia rimasto fuori per errore
io vengo a visitarti, casa verissima,
dovunque.
E la visitazione è questa vita
che perde le pareti mentre avanza:
la perdita è infinita, e mi precede,
è accanto,
è alle mie spalle, e vivamente
abita nelle parole come a casa
.

                   [Silvia Bre – da Marmo]

 

 

In un’intervista del 1977 Anna Maria Ortese dichiara che scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. Come fare ritorno a casa. Come leggere. Ma scrivere e leggere, segnandone il più possibile l’attività relazionale che muove le due orientazioni, determinano il salpare dapprima da un porto conosciuto per poi riconoscere che quella scrittura e quella lettura ci somigliano, nella disappropriazione. In fondo si tratta solo di punti di avvistamento diversi, è la qualità della veggenza a renderli prossimi. È quella casa che per essere ritrovata deve essere smarrita e cercata dovunque, ancora e ancora, e che, come chiarisce Silvia Bre, perde le pareti mentre avanza. In questa somiglianza immaginifica e sensoriale si avvertono i profumi della familiarità misti ad un’assenza da noi quasi fantasmatica. Quando si varca l’uscio dopo tanto vagare si apre Ogni madre di Savina Dolores Massa, in quella feconda e impronunciabile perdita che cede il nostro passo e mantiene vivi. La scrittura di Savina è una visitazione che si rinnova di particolare grazia, non smetterò mai di ribadirlo; una grazia che inchioda alla responsabilità e alla bellezza.

 

Era una bambina di capricci: non faceva sogni strani, non vedeva fantasmi di seminaristi sotto i limoni, non si soffermava con gatti parlanti, non temeva il demonio e non beveva acqua santa. Non indossava scapolari, L’ho perso, e neanche credeva al malocchio.

Altre erano così, le normali.

Sei uscita strana, tu, aveva soffiato un mezzogiorno il padre dentro la sofferenza urlata da un chiodo battuto sull’incudine.

È uscita strana, quella, confidenza pomeridiana della madre a una vicina.[p. 41]

 

Rara è la capacità della scrittura di mettere al mondo creature fatte di carne e sangue alle quali ci si affeziona; e Savina ha questo dono, ci soffia dentro ed eccole lì con capelli neri neri, occhi spenti di stelle e bocche che non sopportano ingiustizia; è un talento che nessuna struttura indotta e imposta può colmare perché a essere messa in scena è una parte di sé, quella mancata, per agognarne la restituzione attraverso il cuore sacro della lingua. Lingua che non muore e che si rigenera ad ogni lettura. Lingua che può essere esplorata molte volte e che custodisce innumerevoli tesori. Nel circolo di amore e sapienza c’è il desiderio di iniziare ogni cosa come se fosse l’ultima, esercizio di faticosa gestione perché indica un rischio che si crede degno di essere vissuto – eppure lavoro profondo verticale e imperdibile. E Savina questo rischio lo corre ogni santa volta, lo ammette lei stessa quando si ha la fortuna di sentirla leggere e parlare dal vivo; lo fa intuire con la potenza e la sincerità di chi sa che la scrittura ancor prima di una professione condizionata dall’editoria è una scommessa di sopravvivenza, una postura resistente, un tentativo di strappare giorni all’assenza, un antidoto contro la soppressione del sé. È forse anche per questo che il percorso poetico-letterario di Savina Dolores Massa è tra i più interessanti e originali oggi in Italia.

Dopo aver conosciuto Maddalenina, protagonista del suo romanzo precedente Mia figlia follia, non si possono non notare le assonanze con le figure di donne che abitano le pagine di questa nuova raccolta di racconti. Una narrazione esatta che si muove tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento in Sardegna ma che si avverte tutta in presenza nel qui e ora come se varcando quella soglia domestica le si potesse incontrare toccare e addirittura ascoltare in tutta la irrinunciabile afasia della loro lingua materna. E sono proprio gli occhi di ogni madre i primi a guardarci frontalmente e a intimare di fermarci per riscoprire il carattere e il guadagno della cura.

Insieme ad un’ospitale filonzana della memoria – in piedi nel telaio della storia – prima di curvarsi per mostrare il filo del destino, proprio lì nella cruna di un tempo altro che ci appartiene, incrociamo donne di diverse età che si accompagnano si scontrano e si riconoscono vicendevolmente e che raccontano di come sia complicato esprimere affetti gesti e contraddizioni, di come sia doloroso vivere in un mondo che conosce la vendetta la guerra e la soperchieria come cifre del reale, di quanto si debba sacrificare in nome del contrappasso della storia. Queste donne tenaci e mortali non sono di nessuno e vivono nella diroccata epoca che passa e che miete i propri semi anche nelle terre sarde, senza falsi idoli o illusioni di redenzione terrena.

Quelle terre gridano anche loro che non sono di nessuno.

Nel passaggio d’età molti sono i nomi che Savina ci ricorda. Si tratta di un popoloso sottobosco di grembi gravidi e spesso asciutti, di padri e mariti vedovi che sperano in una inutile resurrezione, di figlie che riscoprono il doppio volto dell’acqua e del cielo dentro di loro. E poi ancora di unghiette di neonati simili a quelle di gomitoli gatteschi. Lo stesso oblio, al fondo,  nell’amoroso sguardo. E un silenzio vociante, come un tonfo di pietra a ripetere Chischedda Maria Giustino Anna Sofia Liccu Salvatore Itria Lucia Annamaria Pissenti Arròsa e tutto il corredo commovente e coraggioso delle pagine di Ogni madre.

Una scrittura che si mette a repentaglio nella propria interezza non può che meritare una lettura altrettanto generosa, perché alle promesse definitive come quelle di Savina si risponde solo occhi negli occhi con la consapevolezza e la gratitudine di un incontro che non si dimenticherà facilmente.

 

gliocchidiblimunda


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