«Ogni musica evoca immagini», leggiamo nella Dichiarazione generale di Sergio Atzeni che apre la raccolta dei Racconti con colonna sonora, recentemente pubblicati dalle edizioni Il Maestrale di Nuoro per la cura di Giancarlo Porcu. Sicché con una sola mossa, comunicata mediante un atto di scrittura, l’autore colloca in un ambito comune, ovvero allinea in una sola serie, musica, immagini e scrittura. Poiché se ogni musica evoca immagini, la ricezione è tuttavia differenziata – continua Atzeni – e ogni individuo ha i suoi specifici «impedimenti» e i suoi diversi «livelli di adesione» all’ascolto. Da qui l’esigenza di orientare il lettore suggerendo, per ogni racconto, la colonna sonora di riferimento. Un bel colpo, non c’è che dire. Tanto più se pensiamo – avvertiti dalla bella postfazione di Porcu intitolata «Tumbano tambur»i. Storie e progetti di musica, scritture e periferie – che l’allineamento proposto risale ai primissimi anni ottanta. Quandi di intertestualità o di multimedialità si parlava ancora poco, e non si studiavano, come si fa oggi in libri e convegni, i rapporti fra le arti. Ma quando alcuni fra i talenti più sensibili, penso soprattutto a Pier Vittorio Tondelli, già si muovevano in atmosfere musico-scritturali e immaginative non molto dissimili da quelle di Atzeni. C’è forse un problema (ma sarebbe meglio dire un tema) generazionale, quello dei narratori italiani cresciuti a tempo di rock e spinelli, che nacquero alla vita e alla scrittura contestando la guerra in Vietnam e la classe dirigente democristiana, e che di lì a poco proprio Tondelli avrebbe definito come «smalltown boys pienamente immersi nell’alacrità delle province».
Non so quanto Atzeni potrebbe riconoscersi in queste parole, lui che in quanto scrittore cercava di sentirsi contemporaneamente sardo, italiano ed europeo, anticipando le tante analisi che oggi cercano di coniugare nazione e narrazione, ovvero appartenenza (affettiva) e dislocamento (intellettuale). Ma credo non avrebbe disdegnato di stare al gioco, riconoscendo che, in effetti, per quelli come lui la musica funzionava come primario elemento di suggestione e di riconoscimento, costituendosi come matrice di una koinè intellettuale e generazionale.
Particolarmente meritevole dunque l’operazione editoriale, che mette ora a disposizione alcuni brevi ma splendidi testi in grado di illuminare il senso di un progetto poi sviluppato nelle opere maggiori. Dei desideri e delle speranze dell’autore, delle fasi di lavorazione e delle interne differenze fra i racconti riferisce con lucidità e competenza Porcu, alla cui analisi, indispensabile all’intelligenza del testo, rimando senz’altro i lettori. Dal canto mio vorrei solo aggiungere un’osservazione conclusiva. Se è vero che i rapporti fra musica e scrittura intrigano da sempre la cultura occidentale, è anche vero che questi rapporti paiono essersi complicati nel corso del Novecento. Affascinata dall’oralità, sembra infatti che la letteratura contemporanea abbia cercato in mille modi di sonorizzare la scrittura, ricreando sulla pagina quell’effetto musicale che, si dice, fosse proprio della poesia arcaica e comunque della tradizione orale. Come scrive Jean Pierre Martin, questa intensificazione ha determinato la «colonna sonora» della modernità, quell’insieme di voci, musica e suoni che possiamo ascoltare precisamente mettendoci in ascolto del romanzo. Per questo non ho dubbi che Atzeni, guidandoci nei meandri della sua personale biblioteca, abbia cioè contribuito al grande concerto della narrativa moderna creando la specifica sonorità della sua scrittura.