«Ogni storia che narro mi svuota perché là dove termina l’immaginazione sono costretta ad attingere alla verità. Non sempre caritatevole. Ciò accade a causa di una scrittura che - perdonatemi l’immodestia - mi permetto di definire onesta. Una scrittura tirata fuori da zolle indurite dalla vita, la mia e quella di chi mi ha preceduta nel sangue simile al rosso che ho in vena». Con una riflessione della stessa autrice, Savina Dolores Massa, per introdurre il nuovo libro, “Cenere calda a mezzanotte”, edizioni Il Maestrale.
Nell’imprevedibile reticolo dell’esserci, un magnifico romanzo verista di stile nitidamente massiano, intinto nell’inchiostro fatato di una scrittrice che, addentro «sospiri finiti stritolati tra i panni, i malumori di alcuni segreti ormai risaputi da tempo, e anche qualche avanzo di bisticcio sboccato», non smette di celebrare la vita portando con sé un cari- «O co zeppo di odori pronti a far rivivere il passato, e, come valichi del “possibile nell’impossibile”, echi di fragranti risa. “Nello stillicidio delle ore ciascuno si cantò la propria vita. Chi lunga, chi breve. Eppure scalciarono insieme, e allo stesso modo, perché la donna dentro di loro non si facesse immensa. Punti nella profondità delle carni scelsero in tacito accordo il sacrificio di una morta, soffrendo di una gelosia ossessiva che, d’istinto, vollero fare indossare alla memoria», una storia atemporale, radicata nella piccola città di Aristànis, che si schiude con la dipartita di Bonaria, donna «cocciuta, arrogante quanto malleabile, invidiosa e generosa», la quale, tradita da un taglio letale, perdura nell’etere e nell’intimo di un’ondata di personaggi (alcuni dei quali itineranti) ritratti con schiettezza: «Sono molto brutta, tengo l’ira sempre innescata nel corpo. Sono scontrosa e piena di pidocchi. Mi commuovo per i fatti piccoli e divento pietra per i fatti importanti. È giusto se mamma non mi vuole».
Una storia che preserva l’eredità culturale di un popolo celebrando la parola detta che diviene assoluta. «Questo libro è spietato nella bontà e nel suo contrario. È spietato nel frugare fino agli intestini le esistenze degli ‘invisibili’ al mondo: uomini e donne di vissuto apparentemente privo di senso. Piccole vite, piccoli piedi, maiali innamorati, vendette, gechi e bellissime donne capaci di lasciare il calco di sé ovunque. Tutto brulica in cent’anni di trasformazioni quanto di immobilità, attraverso il passo di decine di personaggi, creature, semplici quanto il pane, enigmi quanto, cosa potrei dire?, la matematica. Da un piede infetto e defunto ha inizio il passo di chi potrebbe apparire fermo, ma non lo è mai, se con l’arte del raccontare ha la capacità di condividere il tutto che non è mai niente, se non per gli ammalati di cecità».