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Dicembre 1, 2011
«Vivere per addizione nelle terre di andata»: un colloquio con Carmine Abate

«Ti sto scrivendo
sul biglietto di ritorno
dalla stazione centrale
di Milano metà viaggio
da infarto alle spalle
mentre aspetto la coincidenza
per Crotone e il giorno mi
tramonta a mille chilometri
da te

Torno a casa
con ancora le tue labbra
sulle mie e respiro a fatica
in mezzo ai treni della sera
in partenza e in partenza,
la mia cara ombra tra i piedi
armata fino ai denti scuri,
i piccioni sadici in picchiata
sull’aura disfatta di me
reduce da una guerra perduta,
la valigia gonfia d’aria
straniera, che calcerei
come un pallone contro i muri
vetrati della stazione,
la voglia di tornare
indietro nach Hause
da te». (pag. 151)

Iniziando a colloquiare con Carmine Abate, la mia curiosità va immediatamente ai suoi “lavori in corso”: «sto lavorando a un nuovo romanzo - mi dice - che uscirà in primavera per Mondadori, a distanza di quattro anni dal mio ultimo romanzo, “Gli anni veloci”.  Non riesco a lavorare a più progetti per volta: uno mi basta e avanza».
In questa rubrica ci siamo già occupati di Abate, autore che porta dentro la scrittura la sua sana impronta plurilinguistica e pluriculturale legata alle sue origini, alla sua storia e ai suoi tempi.
Alla domanda perché ha definito Terre di andata (Edizioni Il Maestrale, Nuoro 2011, pp. 154) un “diario poetico”, Abate mi spiega con libertà e tranquillità: «semplicemente perché io non ho mai scritto un diario, nemmeno durante l’adolescenza. Le poesie sono gli unici miei testi in cui compare spesso la data di composizione, quasi volessi ricordare, come in un diario di bordo, le mie esperienze più significative, i volti, gli amori, i sentimenti e, appunto, le terre di andata in cui ho vissuto». È una puntualizzazione non da poco. Infatti, il Carmine Abate recente - Vivere per addizione ed altri viaggi del 2010 per la narrativa e appunto Terre di andata per la poesia di quest'anno - ha scelto una strada più personale e privata per raccontare (e raccontarsi). Si è mosso sul filo della memoria sempre corrente che lega pensieri, ricordi, esperienze. Lui stesso lo sottolinea in questa conversazione, specificando il forte richiamo a sentimenti e stati d'animo schietti e cangianti. «Sono, senza dubbio, i miei due libri più sfacciatamente autobiografici.  Ci trovi dentro - dice - le ferite della partenza, la rabbia di vivere lontano dalla propria terra, ma anche la consapevolezza, a un certo punto del mio percorso, che l’emigrazione può essere trasformata in ricchezza culturale. Bisogna volerlo fortemente, anche se non è facile. L’espressione “Vivere per addizione nelle Terre di andata” - titolo dello spettacolo letterario-musicale che tengo con il musicista Cataldo Perri - mi sembra la sintesi perfetta di questa nuova visione dell’emigrazione».
Entrambi i libri nascono - raccontandolo - in un arco di tempo molto lungo. «È l’arco di tempo delle mie partenze e dei miei ritorni, dal primo viaggio verso Amburgo che ho fatto con la mamma all’età di sedici anni, agli ultimi viaggi nelle mie nuove Terre di andata: dunque un lungo percorso in cui si racconta l’incontro-scontro tra le culture, in un’Europa sempre più multiculturale, vista però dallo sguardo di mezzo o sospeso di chi vive sempre altrove, un uomo che alla fine scopre di possedere più radici, più lingue, più storie da raccontare».
Ascoltando Abate, il pensiero va ai primi versi della raccolta, con la poesia-cornice Alla fine -

«Alla fine
miei cari
vi proporrò un viaggio nel mio cuore
e nuoterete nei liquidi inquinati
dalle mode mai morte
nella schiuma accarezzata dal vento del Sud
bergamotti e ginestre
fiumare arse nell'afa
vi saranno serviti ben caldi
con spruzzate di rabbia a parole
nostalgie a mo' di compensazione». […] (pag. 13)

- in cui la traccia limpida delle radici - che sono colori e profumi - si muove oltre l’orizzonte materico e dato di un paese, di una città, di una terra. Il poeta diventa voce narrante di un viaggio circolare - per addizione - che si alimenta del ritmo e della musicalità di poesia e prosa insieme: «Fin dall’inizio - mi spiega - mi sono accorto che le mie poesie erano antiliriche, avevano un ritmo e un respiro diverso dalle poesie tradizionali, spesso raccontavano delle storie in miniatura: le ho chiamate proesie, in quanto le vedo come un amalgama di prosa e poesia, quasi dei raccontini poetici, delle poesie narrative». E, infatti, questa amalgama si respira in modo immediato non solo nei testi a impianto più esplicitamente poetico o narrativo:

«La Germania i germanesi i figli-me
le pagliuzze dagli occhi levare o
conficcare la trave infocata nell’occhio blé
di Polifemo, meta di sempre meta-metà
sogno-illusione. Ad Amburgo non ce n’è bisogno.
Meglio così si gioca a carte al Centro
della Caritas come al paese tanti dialetti
miscugli di lingue che tutti capiamo
abbiamo la squadra di calcio abbiamo
l’assistente sociale e il prete del nord
che dice d’essersi adeguato perché
chi piscia contro vento si bagna.
I giovani raccontano le avventure
con le tedeschine da discoteca toccandosi
i riccioli neri e poi l’estate
ogni sera l’estate passata
l’estate futura l’estate al paese
con l’auto metallizzata targata HH. Restare». (pag. 89).

Abate non parla di passaggio dalla parola poetica a quella narrativa e viceversa. Una spiegazione esigente e sostanziale che fa capire come la centralità della sua produzione rimanga la parola con tutti i suoi pieni significati: «per quanto mi riguarda, non cambia nulla tra poesia e prosa: c’è la stessa ricerca ossessiva della parola essenziale, priva di orpelli e retorica, lontana dagli sperimentalismi fini a se stessi; c’è e ci deve essere alla base di entrambe la necessità, soprattutto, l’urgenza della scrittura, senza la quale non avrebbe proprio senso scrivere». Non è un caso che l’impianto comunicativo di alcune di queste poesie ricorda l’esperienza della prima emigrazione di Abate raccontata ne Il muro dei muri, raccolta di racconti che svela paure, sofferenze, sogni e speranze di un italo-arberesh in Germania.
Non è la prima volta che lo scrittore si cimenta nella poesia. Lui stesso ricorda nel libro che il primo nucleo di queste poesie risale agli anni Settanta quando viveva in Germania. Ed è un amore che ha sempre coltivato e fatto crescere quasi in modo congenito: «Ho sempre scritto e continuo a scrivere, ma più di rado, poesie e proesie, dunque è una passione che ho sempre coltivato. Quando mi metto a scrivere, però, non mi dico mai: ora scrivo una poesia, ora scrivo un racconto. Dipende molto da quello che scrivo. È la singola parola, la prima dell’immagine iniziale, che mi detta la scelta».
Terre di andata è diviso in diverse sezioni: Dimore tra me (1979-1987), Dimore di me (1977-1979), Di more (1986-1995), Dimore di noi (1989-1979). Ad una lettura attenta, non è solo una divisione legata a singoli periodi di composizione con la sequenza temporale al contrario dell'ultima. C’è il caldo della parola dimora che tiene insieme tutti gli elementi della casa, materiali e affettivi, legando anche luoghi e parole differenti in un unico disegno di vita e di esistenza. «Sì, il libro - puntualizza - è il risultato di una scelta fatta a posteriori su centinaia di poesie: le ho raccolte attorno al tema delle “Dimore”, o se vogliamo delle partenze e dei ritorni, inserendoci anche una sezione di poesie d’amore e poesie plurilingue, in cui ho fatto rimare l’italiano con l’arberesh e con il tedesco, mescolando con gusto le mie lingue e le mie anime». Le poesie plurilingue non sono mero esercizio poetico. Dentro c’è tutta la storia unitaria di culture e identità che stanno insieme in un unico messaggio, presupposto di società inedite e più aperte:

«Vete e torno
ich gehe e vado
inciampo sul guado
dell’Umlaut mi graffio
al confine e gjuhës çë pret
ashtin come un coltello
che taglia le lingue mentre
ich gehe e vado e vete
senza mete» (pag. 109)

[…]
«queste autostrade del sole:
prendile tu che puoi,
mein Sohn bir figlio mio,
e attraversale come vuoi:
il pedaggio l’ho pagato io». (pag. 121)

È un approccio circolare che svela rappresentazioni mentali e pensieri lungo la dicotomia vicinanza-lontananza, arrivi-partenze che non è solo racconto di sofferenza. Per questo, il libro respira di idiomi diversi, incontri, contaminazioni plurali. Lo fa come fosse naturale propensione di ognuno di noi; anelito verso la libertà energica della testimonianza anche quella più intima, parentale:

«Il passato se passa
lascia solchi di sangue
boschi morti e ruscelli.
Anche tu raccoglievi l’ultima spiga
per due fichi secchi e un pane
e tutti erano uomini,
i bambini e le donne

Nel presente
è difficile vivere

Il resto è un paesaggio di fiaba
coperto di neve bianchissima.
L’eroe vince sempre
e il drago sconfitto ma vivo
si dilegua nel bosco incantato». (pp. 67/68).

In queste poesie, c’è la storia più profonda di Carmine Abate. Una traccia intima che raccoglie attese, movimenti, dolore, gioia. La sua parola è carica di determinati significati simbolici e connotativi che annotano orizzonti e confini sociali tra uomini e donne, «tra dimore e memorie in movimento» (pag. 154). Proesie che hanno in nuce tante narrazioni ancora da rivelare.


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