Non è altro che una città semispopolata e allo sbando la Torino che appare nel nuovo romanzo di Alessandro De Roma, La fine dei giorni. «Arcipelago di marciapiedi» dove il protagonista, il professor Giovanni Ceresa, bigio uomo cechoviano, cammina compulsivamente, flàneur disperato e ossessionato, per cercare un'impossibile verità. Il suo mondo è quello orwelliano della paura: su di lui, come sul resto della nazione, incombe un morbo che non si è esteso oltre i confini dell'Italia e che ha devastato il Paese: la perdita della memoria. E ognuno reagisce come può: lui, Ceresa, si affanna a prendere minuziosi appunti scritti su tutto ciò che ha appena fatto e pensato: l'unico mezzo che conosce per restare attaccato a una vita non vegetativa.
E però, intorno a lui, c'è l'estendersi dello sfacelo sociale: vie del centro svuotate, scomparsa, dai negozi, dei generi alimentari di prima necessità, rari mezzi urbani, elettricità che scarseggia. Sia Ceresa sia le poche persone che frequenta si nutrono soprattutto di cioccolata calda (beh, è Torino, alla fin fine), una delle poche risorse ancora disponibili. Non bastasse, le periferie sono infrequentabili, in mano a bande di "barbi", drop out la cui massima aspirazione è calare in città a caccia dei "sopravvissuti", degli "idioti" che, come il protagonista, si ostinano a «costruire pezzi di mondo per ingurgitarli e vomitarseli addosso». Non è solo Giovanni Ceresa. Ha un vecchio padre bizzoso, ormai fuori di testa, che vive con lui; e una sorella, la bella Carla, che ha rotto con la società, rifugiandosi, assieme al popolo degli "apocalittici", nelle gallerie del cimitero; dove un universo di relitti umani, che si dice pratichino il cannibalismo, sta organizzando una specie di resistenza. Perdente già sul nascere. Carla che, per gli altri ribelli, è una dea, ascoltata con estasi non appena apre la bocca. All'origine dello sfacelo della vita collettiva sta la congiura di qualcuno che ha voluto sovvertire, per brama di potere, le regole della vita civile. Iniziando con la somministrazione obbligatoria, a ogni adolescente, che raggiunga la maggior età, di un test attitudinale che divide la popolazione in due classi: da una parte i pochi destinati a ruoli decisionali, e dall'altra la massa dei bocciati alla prova. Ne verrà una congerie di umili e di sottomessi, la cui sorte è quella di mestieri subalterni, non pericolosi. E Ceresa, a differenza di Carla, che ha passato il test ma ha deciso di lottare (anche in seguito a un'oscura storia familiare di mercimoni e violenze ai suoi danni), giudicato non idoneo, ha dovuto ripiegare sul lavoro dell'insegnamento. Totalmente inutile, essendo inascoltato da allievi a loro volta imbambolati e confusi. C'è un versante giallo nella storia, catastrofica e volutamente grigia, di De Roma. Incentrato sulle trame politiche oscure di pochi, votati alla distruzione della vecchia società. Con, in più, la scomparsa misteriosa e progressiva della popolazione degli anziani, che svaniscono nel nulla da un giorno all'altro: rapiti, soppressi, occultati, chissà. Ma c'è anche il romanzo, surreale ma non troppo, del presagio di un tracollo, materiale e morale, che sovrasta il nostro Paese. Un romanzo sgradevole ma necessario. E De Roma è abile a cacciare il suo eroe in situazioni kafkiane dalle quali, nonostante le sue ragionevoli aspirazioni e i suoi sogni, non potrà più evadere.