Ha curato l’edizione critica dell’opera di Pascale Dessanai, Peppinu Mereu, Antonio Cano e Sergio Atzeni. Giancarlo Porcu, editor del “Maestrale” e critico letterario, torna agli strumenti della filologia, scienza di cui è rigoroso specialista, per risarcire le lacune che hanno sinora caratterizzato l’opera di Pisurzi. Vissuto nel ’700, è considerato primo vero poeta popolare in logudorese.
L’autore restituisce così alla storia degli studi sulla letteratura in lingua sarda un libro, “Le canzoni di Pisurzi” (Il Maestrale, pp. 704, euro 20) a cui – scrive nella prefazione Paolo Cherchi, professore emerito di filologia e letterature romanze all’University of Chicago – si addice «il titolo di “monumento”». Non solo perché il lavoro sottrae la produzione dalla natura effimera dell’oralità, ricostituisce il corpus arricchendolo di 10 inediti ed emenda gli errori della tradizione scritta. Ponendo la questione come preliminare, ha anche il merito di dipanare le ombre che hanno offuscato la biografia del sacerdote-poeta nato, vissuto e morto a Bantine, villaggio che è oggi frazione di Pattada. Il saggio offre, infine, uno spaccato della società sarda del tempo, testimone dell’epocale transizione dalla dominazione spagnola a quella sabauda.
IL PERSONAGGIO. L’ufficializzazione della figura del poeta, «molto conosciuto nella parte settentrionale della Sardegna per la celebrità delle sue rime», si deve a Pasquale Tola. Nel “Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna” (1837) dedica una voce all’autore, errando tuttavia nell’identificazione del prete-letterato con un tal Pietro (1724-1799). Porcu, attraverso un’indagine nei registri della chiesa di Santu Giagu a Bantine, dà al poeta l’identità anagrafica di Juan Maria Demela “Pesucciu”, cognome registrato secondo differenti grafie. Battezzato nel 1707 (quando il sacramento s’imponeva nel giorno successivo alla nascita), morì nel paese natale nel 1796. Sarebbe dunque lui il personaggio ricordato anche da Vincente Mamely de Olmedilla (1768) come «buon sacerdote (…), bravo poeta dialettale (…) molto stimato dai parrocchiani, che lo considerano loro padre», un “Babbai” secondo l’epiteto richiamato dallo stesso Pisurzi nella canzone “S’anzone”.
IL CORPUS POETICO. Il filologo procede dal censimento dei cosiddetti “testimoni”. Attraverso l’analisi e il confronto dei manoscritti custoditi nella Biblioteca comunale di Sassari, in quella universitaria di Cagliari e nell’archivio privato “Barore Solinas”, Porcu ricostruisce un corpus di 19 testi autentici, 10 dei quali (7 canzoni lunghe e 3 componimenti monostrofici) inediti. Il libro include anche testi di dubbia attribuzione.
STILE, METRICA, LINGUA. I versi di Pisurzi, originali rispetto alla vena didattica prevalente nella Sardegna del periodo, prediligono la favola allegorica (le canzoni più celebri sono “S’abe” e “S’anzone”), il ricorso alla satira e un legame profondo, tratto di specificità non sempre valorizzato dalla critica, con la cultura pastorale barbaricina. Interessanti dal punto di vista antropologico “sas cantones” “A tie” e “Intro ’idda”. I componimenti non censurano – come l’allineamento alle «interdizioni ecclesiastiche ufficiali» avrebbe prescritto – la pratica del ballo sardo. Lungi dal considerarla espressione di peccato, ne legittimano funzione sociale e socializzante. Il lavoro di Giancarlo Porcu è poi prezioso dal punto di vista dell’analisi metrica (nelle cantones di Pisurzi ricorrono gli schemi appartenenti al genere della “retroga”: «Strutture parallelistiche giocate su inversioni/retrogradazioni di parole-rima») e linguistica. Un’edizione che è un “monumento”, dunque. Modello da indicare per preservare la memoria della tradizione letteraria in lingua sarda.