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Luglio 18, 2017
"Canzoni di Pisurzi" poeta sardo del ’700

Ha curato l’edizione critica dell’opera di Pascale Dessa­nai, Peppinu Mereu, Antonio Cano e Sergio Atzeni. Giancarlo Porcu, editor del “Maestrale” e cri­tico letterario, torna agli strumen­ti della filologia, scienza di cui è ri­goroso specialista, per risarcire le lacune che hanno sinora caratte­rizzato l’opera di Pisurzi. Vissuto nel ’700, è considerato primo vero poeta popolare in logudorese.

L’autore restituisce così alla sto­ria degli studi sulla letteratura in lingua sarda un libro, “Le canzoni di Pisurzi” (Il Maestrale, pp. 704, euro 20) a cui – scrive nella prefa­zione Paolo Cherchi, professore emerito di filologia e letterature ro­manze all’University of Chicago – si addice «il titolo di “monumento”». Non solo perché il lavoro sottrae la produzione dalla natura effimera dell’oralità, ricostituisce il corpus arricchendolo di 10 inediti ed emenda gli errori della tradizione scritta. Ponendo la questione co­me preliminare, ha anche il meri­to di dipanare le ombre che hanno offuscato la biografia del sacerdote-poeta nato, vissuto e morto a Ban­tine, villaggio che è oggi frazione di Pattada. Il saggio offre, infine, uno spaccato della società sarda del tempo, testimone dell’epocale transizione dalla dominazione spa­gnola a quella sabauda.

IL PERSONAGGIO. L’ufficializzazio­ne della figura del poeta, «molto conosciuto nella parte settentrio­nale della Sardegna per la celebrità delle sue rime», si deve a Pa­squale Tola. Nel “Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna” (1837) dedica una voce all’autore, errando tuttavia nell’identificazione del prete-letterato con un tal Pietro (1724-1799). Porcu, attraverso un’indagine nei registri della chiesa di Santu Giagu a Ban­tine, dà al poeta l’identità anagrafica di Juan Maria Demela “Pesucciu”, cognome registrato secondo differenti grafie. Battezzato nel 1707 (quando il sacramento s’imponeva nel giorno successivo alla nascita), morì nel paese natale nel 1796. Sarebbe dunque lui il personaggio ricordato anche da Vincente Mamely de Olmedilla (1768) come «buon sacerdote (…), bravo poeta dialettale (…) molto stimato dai parrocchiani, che lo considerano loro padre», un “Babbai” secondo l’epiteto richiamato dallo stesso Pisurzi nella canzone “S’anzone”.

IL CORPUS POETICO. Il filologo procede dal censimento dei cosiddetti “testimoni”. Attraverso l’analisi e il confronto dei manoscritti custo­diti nella Biblioteca comunale di Sassari, in quella universitaria di Cagliari e nell’archivio privato “Barore Solinas”, Porcu ricostruisce un corpus di 19 testi autentici, 10 dei quali (7 canzoni lunghe e 3 componimenti monostrofici) ine­diti. Il libro include anche testi di dubbia attribuzione.

STILE, METRICA, LINGUA. I versi di Pisurzi, originali rispetto alla vena didattica prevalente nella Sarde­gna del periodo, prediligono la fa­vola allegorica (le canzoni più ce­lebri sono “S’abe” e “S’anzone”), il ricorso alla satira e un legame pro­fondo, tratto di specificità non sempre valorizzato dalla critica, con la cultura pastorale barbarici­na. Interessanti dal punto di vista antropologico “sas cantones” “A tie” e “Intro ’idda”. I componimen­ti non censurano – come l’allinea­mento alle «interdizioni ecclesia­stiche ufficiali» avrebbe prescritto – la pratica del ballo sardo. Lungi dal considerarla espressione di peccato, ne legittimano funzione sociale e socializzante. Il lavoro di Giancarlo Porcu è poi prezioso dal punto di vista dell’analisi metrica (nelle cantones di Pisurzi ricorro­no gli schemi appartenenti al ge­nere della “retroga”: «Strutture pa­rallelistiche giocate su inversioni/retrogradazioni di parole-rima») e linguistica. Un’edizio­ne che è un “monumento”, dun­que. Modello da indicare per pre­servare la memoria della tradizio­ne letteraria in lingua sarda.


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