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Maggio 1, 2011
Contro le etichette - Carmine Abate non solo letteratura "migrante" - Stefano Zangrando

da Trentino

 

 

 

Prosegue in questo numero, con l’intervista a Carmine Abate, il “viaggio” attraverso gli scrittori più importanti e  conosciuti di casa nostra. A condurlo è Stefano Zangrando (Bolzano, 1973) che ha pubblicato i volumi di racconti  Bozen underground e tre racconti (Egolalia, 2000) e Quando si vive (Keller, 2009) e il romanzo Il libro di Egon  (Greco & Greco, 2005). Ha tradotto dal tedesco opere di Ingo Schulze, Peter Handke, Peter Kurzeck, Durs  Grünbein e altri. Nel 2008 ha ottenuto una borsa di scrittura dell’Accademia delle Arti di Berlino e nel 2010, per la traduzione del romanzo Adam e Evelyn di Ingo Schulze (Feltrinelli, 2009), il riconoscimento come miglior esordiente  del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria.

 

Abate, a quindici anni dalla prima edizione e dopo aver ottenuto il successo internazionale come  romanziere, la ritroviamo con una nuova edizione arricchita delle sue «poesie e proesie», Terre di  andata (Il Maestrale). A cosa dobbiamo questa riscoperta degli esordi?

Innanzitutto questo era l’unico mio libro non più in commercio. Tutti gli altri libri di narrativa ho la fortuna di averli in  catalogo negli Oscar Mondadori, mentre il saggio I germanesi, una ricerca socioantropologica sulla migrazione, è  stato riproposto nel 2006 da Illisso/Rubbettino. In ogni caso, a questo libro di poesie e proesie tengo in maniera  particolare, forse perché sono storie intime e autobiografiche e in fondo parlano di tutte quelle situazioni, di quei  viaggi e luoghi che non sono entrati nel libro di racconti uscito l’anno scorso [Vivere per addizione, Mondadori, NdR]. Si tratta infatti di due libri complementari, li si potrebbe quasi leggere o addirittura pubblicare assieme, alternando  poesie (o proesie) e racconti. Proprio su questi due libri, tra l’altro, terrò dei reading con Cataldo Perri e i suoi  straordinari musicisti; è uno spettacolo che prende il nome dalla fusione dei due titoli: Vivere per addizione nelle  terre di andata. Entrambi i libri saranno inoltre presentati anche in giugno al Trentino Book Festival di Caldonazzo.  Come tutti i miei testi, tuttavia, anche questo di poesia non va letto solo in chiave autobiografica; fin dall’inizio ho  sempre scritto con l’illusione di farmi leggere e capire da un pubblico. La speranza è che un testo su problematiche  vissute sulla propria pelle – l’emigrazione, il razzismo, l’estraneità, l’incontro e lo scontro tra le culture –, e che per  me quindi è urgente e necessario, diventi urgente e necessario anche per gli altri.

 

 Il percorso tracciato dalle sue poesie è quello di una migrazione molteplice, che poi è un tema  ricorrente della sua opera. In un suo componimento giovanile si legge: «noi migranti abbiamo stomaci  da struzzo e / teste nascoste sotto terra». È così ancora oggi, per lei?

 No, per me non è più così, perché ho preso coscienza del fatto che emigrare non è solo strappo, ferita, chiudere gli occhi per non vedere la realtà ostile che ci circonda – vivere, come ho scritto in un racconto giovanile, «con i piedi al nord e la testa al sud», ma è anche una ricchezza. Nel corso degli anni ho cercato quindi di valorizzare tutte le mie “terre di andata”, di non considerarne una superiore alle altre, ma di prendere il meglio da ogni luogo, da ogni dimora. È questo per me il senso del “vivere per addizione”. Quindi non si tratta solo di recuperare le radici originarie,

quelle che a volte i migranti strappano – nel disperato tentativo di integrazione che si può trasformare, però, in  assimilazione – e a volte esaltano, vittime della nostalgia lamentosa e retorica, ma di valorizzare tutte le radici che si sviluppano in ogni luogo dove ci troviamo a vivere.

 

Salman Rushdie ha addirittura smontato questa metafora osservando una volta che, se ci guardiamo bene sotto i piedi, non troviamo nessuna radice… Si sente ancora un migrante, oggi che la sua esistenza si è fatta un po’ più stanziale, o preferisce parlare, che so, di identità plurale?

Più che stanziale risulto residente da diversi anni nello stesso posto; però, per parafrasare la mia metafora giovanile, direi che oggi ho un piede al Nord e uno al Sud, e la testa in mezzo. Insomma sento di avere un’identità plurale, fatta dei tanti tasselli delle terre di andata, di diverse lingue e radici, alcune volanti nell’aria. Io non vivo solo qui in Trentino, ma anche in Calabria, seppur materialmente ci passi meno tempo, o in Germania. Al Trentino devo anche quello che in Vivere per addizione ho chiamato il mio “sguardo di mezzo”. Uno sguardo che mi consente di vedere e raccontare i lati oscuri e luminosi del Sud e del Nord dell’Europa con distacco e passione. Stanziale, dunque, è una definizione che mi sta stretta. Forse, se lo fossi davvero, non riuscirei nemmeno più a scrivere.

 

Quanto conta il suo plurilinguismo, così presente anche nelle poesie più tarde dell’ultimo libro, in questa percezione di sé?

È la dimostrazione stessa dell’identità plurale. Infatti le mie tre lingue – italiano, arbërësh, tedesco – le utilizzo  mescolandole e contaminandole nella stessa pagina, anche nella stessa poesia. Ciò colpisce molti lettori forse perché vi ritrovano lo stesso stupore che provo io quando le scrivo: queste parole, che si tuffano spontaneamente nella pagina, alla fine sono le esche vive che portano a galla le mie storie. Quindi il plurilinguismo viene addirittura prima delle storie che racconto e dei sentimenti che voglio esprimere.

 

Mi pare che nella sua condizione migrante e plurilingue lei si trovi ormai completamente a suo agio. Ma non crede che tutta la retorica corrente sulla “letteratura migrante” rischi, com’è accaduto ad altri autori e autrici, di confinare la sua opera in un ghetto che ne perda di vista il valore letterario “in sé”?

Non sopporto le etichette, sono nocive nei confronti di tutta la letteratura di qualità, anche di quella scritta dai  migranti. Io mi sento uno scrittore, anzi un narratore, e basta. Credo che il rischio di cui lei parla lo corro solo quando si parla di me per sentito dire o in maniera frettolosa. Nei miei libri non ho raccontato solo l’emigrazione, ho raccontato anche l’amore, il mistero, la morte, le ingiustizie sociali, il Sud, il Nord, le minoranze, la famiglia, per dire i  primi temi che mi vengono in mente. Gli anni veloci, ad esempio, è un romanzo di musica e sport, che parla di Lucio  Battisti e Rino Gaetano, è una storia d’amore ambientata in parte in Trentino. E neanche Tra due mari,  benché il  protagonista sia nato in Germania, parla di migrazione: è invece un romanzo sul tema della memoria e sulla  ’ndrangheta. È vero, negli anni mi hanno appiccicato addosso qualche etichetta, come accadde anche in Germania ai miei esordi. Ma, per mia fortuna, quando libri come Tra due mari o La festa del ritorno sono apparsi in traduzione  straniera, negli USA o in Francia o in Portogallo, nessun critico ha tirato in ballo il rapporto letteratura e migrazione, come invece accade a volte in Italia. La mia stessa casa editrice, Mondadori, non mi considera uno “scrittore   migrante” o uno “scrittore arbërësh”, ma appunto uno scrittore di storie che riguardano tutti noi. Dopodiché sono disposto a riconoscere che mi sento vicino ad alcuni scrittori con un passato di migrazione e lo sguardo plurimo sul mondo. E il suo esempio di prima, quello di Salman Rushdie, indica che dopotutto sono in buona compagnia.

 

Veniamo alla domanda di prammatica, che proverò a declinare rispetto al suo mondo poetico: cosa trova di buono in Trentino un migrante e cosa invece, secondo lei, sarebbe meglio se non trovasse?

In particolare nel racconto Vivere per addizione mi sono posto anch’io questa domanda. Riguardo al buono, fin dall’inizio sono stato attratto dal Trentino in quanto terra di confine e dunque terra di contatto, non di divisione tra gli uomini. Una realtà che io percepisco come simbiosi e sintesi del Nord e del Sud dell’Europa; qui, se apri gli occhi, se ti sforzi, puoi trovare il meglio dei due mondi e ti puoi arricchire culturalmente e umanamente. Purtroppo, però,  la terra di confine viene vissuta anche in una dimensione di frontalità, quasi come un fortino, con tanto di steccati e sentinelle, per impedire l’entrata degli estranei, dei foresti, figuriamoci poi se questi sono scuri di carnagione.  Insomma, l’ossessione della “piccola patria” che bisogna proteggere e difendere, a costo di usare come armi i più biechi luoghi comuni nei confronti degli intrusi. Vorrei concludere, però, con una delle “cose buone e speciali” che apprezzo in Trentino: l’attenzione per la cultura, la passione per la lettura da cui ci sente circondati, l’esistenza di  librerie fornitissime e librai competenti, un sistema bibliotecario che è tra i migliori d’Italia. Una manna per un  migrante scrittore e lettore.


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