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Agosto 2, 2010
De Roma indaga l'anima nera

«Si compie un primo passo nel bosco e poi non è che un disperato attenersi al sentiero, per paura di perdersi, scoprire nuovi cammini ancor più intricati». In questa frase c’è forse racchiuso tutto il senso del nuovo romanzo di Alessandro De Roma, Il primo passo nel bosco, edito da Il Maestrale. È la terza prova dello scrittore sardo di Carbonia e non fa che confermare quanto di buono si era letto nei due romanzi precedenti, Vita e morte di Ludovico Lauter e La fine dei giorni , anch’essi pubblicati da Il Maestrale. Del resto il quarantenne Alessandro De Roma è tra i migliori autori italiani della sua generazione, com’è stato riconosciuto da più parti. Lo è per una serie di motivi. Innanzitutto perché la sua scrittura è nutrita di un’eleganza formale che è ormai sempre più raro trovare in un romanzo contemporaneo, lo è perché i suoi espedienti letterari non sono mai fini a se stessi ma vengono messi al servizio della storia che intende raccontare e, soprattutto, perché è capace di scandagliare l’anima nera dei suoi personaggi e, attraverso di loro, di una collettività sociale, senza levare giudizi morali, ma anzi aspirando sempre a raggiungere il nucleo profondo dell’esistenza umana. Il primo passo nel bosco è la storia di una coppia di coniugi di mezza età, Amalia e Serafino Pinna, ridotti a una fuga insensata lungo la statale 131, quella che da Cagliari porta verso l’entroterra, colpevoli di un peccato innominabile e allo stesso tempo vittime della propria povertà morale e delle soffocanti limitatezze di un’esistenza borghese. Alle loro spalle una vita vissuta di rendita in un bel villaggio residenziale fuori città, scandita dai tornei di preghiere ai quali partecipa la grassa e devota Amalia e dai giri notturni di Serafino nelle stradine deserte del quartiere di Castello in cerca di “qualcosa di vivo”. Non hanno niente di seducente due personaggi così, come non ha niente di seducente la loro bigotta normalità, l’autismo sociale in cui si trascina il loro matrimonio giorno dopo giorno, la loro vita in cui si può fare a meno dei sogni ma non di un gatto in odore di demonio e nemmeno di un figlio che proprio non vuol venire. Lo Scoglio Fiorito, il villaggio residenziale sul mare a ovest di Cagliari in cui si rifugiano i coniugi Pinna una volta chiuse le rispettive attività, fa pensare alla Revolutionary Road di Richard Yates. Anche qui ci sono gli alberi, i giardini, le verande, le torte dei vicini, anche qui l’unico regolatore sociale che sembra funzionare ruota intorno ai sentimenti mielosi della gente e alla capacità individuale di esternarli. Così, in questa pace da incubo, non c’è salvezza neppure per i personaggi che fanno da contorno alla storia, ciascuno affetto a suo modo da una forma di cinismo, come se il male, non sapendo più come scaturire fra tanta pace, cerchi le vie più sordide, le più basse e vili. Quanto di più lontano, dunque, dalla moda attuale che richiede sempre più spesso romanzi incentrati su un certo giovanilismo rampante, meglio se regionale, o peggio ancora sui tormenti di improbabili eroi da noir. Perché Alessandro De Roma invece sembra voler sfidare il lettore su un terreno che negli ultimi anni si è fatto incolto, quello dell’invenzione pura, dove per invenzione si intende il dare vita a personaggi all’apparenza normali, colti nei loro disagi esistenziali e psicologici, se non addirittura nelle loro conclamate follie. Saper fare questo, e saper legare insieme l’individuale e il collettivo in un unico agglomerato tragico significa mettere il lettore di fronte alle proprie angosce, provocandone sdegno e turbamento. In fin dei conti nemmeno la letteratura è il migliore dei mondi possibili.


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