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Luglio 25, 2020
Emilio Lussu in "La cancellazione", romanzo di Mariangela Sedda

Sullo sfondo c’è una città mediterranea, «luminosa», «indolente», che offre vedute maestose dall’alto del Colle, un vasto «orizzonte di mare e stagni» e, verso sera, «uno struggimento di grigi, striature che liquefacendosi in larghe chiazze ingoiano l’acceso tramonto». È una città in cui i ritmi sono dettati dai venti, come spesso succede sulle isole: i venti umidi che vengono dall’Africa e trasportano la polvere rossa del deserto, rallentano le azioni, immobilizzano e imprigionano nell’afa, o i venti freschi che soffiano da Nord e rivitalizzano, tonificano, accelerando il corso degli eventi. Questa Città che diventa anche protagonista, non viene tuttavia mai nominata, ma lasciata al principio di indeterminazione – anche se si capisce che è Cagliari – e assume così qualcosa di metafisico, diventa un luogo surreale.

Anche i personaggi sono senza nome, definiti solo dalle loro cariche ufficiali (il Deputato, il Consigliere Istruttore, ex-amico di Lussu passato al fascismo che ha l’angoscioso compito di notificargli la decisione). Solo Lussu viene nominato, e questo proietta il personaggio in primo piano, dandogli grande risalto, anche se poi le pagine dedicate a lui non sono molte, e però significative. Il focus della storia è centrato sulla sua vicenda, sebbene lui resti in penombra, chiuso nella sua cella umida e maleodorante, con un ritaglio di cielo che appare nella finestrella a bocca di lupo; lui sempre più magro, sofferente, indebolito dalla febbre, con l’impressione di essere chiuso dentro la «fortezza di una terra dimenticata, un limbo senza patria» (viene in mente Il deserto dei tartari di Buzzati, per la stessa atmosfera inquietante).

E forse le pagine più belle, più visionarie, sono quelle dedicate alla sua evasione immaginaria, quando la mattina presto scende fino al porto, osserva i pescatori che scaricano il pesce sulla banchina; poi si spinge fino al villaggio, entra in casa sua, vede la madre che lo aspetta, sul tavolo di cucina un piatto pronto per chi può tornare da un momento all’altro. Vede la sua gente, i suoi soldati che hanno rischiato la vita in trincea, sono stati traditi dopo la guerra. Lui invece era rimasto sempre in guerra, all’assalto, «non era mai uscito dalla trincea». Perciò è un sovversivo pericoloso, da punire con la cancellazione dall’Ordine degli Avvocati, che significa per lui la perdita dell’identità professionale.

L’interesse e il fascino di questo romanzo stanno nella capacità dell’autrice di intrecciare micro e macrostoria. La grande Storia, le gesta del fascismo trionfante che impone lo «spirito dell’Ordine», mette a tacere i cospiratori e provoca la resa di molti al potere del più forte, il piegarsi davanti al dittatore: un Mussolini che aveva l’ambizione di imprimere un “nuovo corso alla Storia” e voleva ridare centralità all’Isola, farla diventare «l’ombelico del Mediterraneo». Sullo sfondo, c’è il miraggio della modernità che incombe, il sogno di ridurre la distanza fra Isola e Continente.

E poi c’è la piccola storia, le vicende della gente comune, le scene di vita popolare: nelle giornate primaverili, sulla Rocca o sui Bastioni, i bassi spalancano le porte, le donne mettono i materassi al sole e, insieme ai vecchi, spidocchiano i figli. Oppure un transatlantico di turisti approda in porto, creando lo scompiglio in città, e i monelli inseguono i croceristi inglesi per vendere qualcosa o strappare qualche moneta. O ancora, nello stabilimento balneare alla moda si ritrova la borghesia cittadina. Sono momenti di grande leggerezza, in una vicenda inquietante. E i dialoghi sono resi ancor più efficaci da espressioni in lingua sarda che non solo dà colore, ma influenza anche il ritmo della frase italiana, la struttura stessa, conferendole una musicalità aspra, un tono duro.

Quella di Mariangela Sedda è una scrittura di memoria che fruga tra le pieghe della grande Storia alla ricerca di vicende dimenticate, colma i vuoti con l’immaginazione, riempie le pagine bianche trasfigurando gli eventi; e così ricostruisce i frammenti mancanti, ricompone le tessere di un mosaico. È una scrittura che lotta contro l’azzeramento della memoria, lo schiacciamento del tempo sul presente. Una scrittura che va in controtempo, ponendosi il compito di custodire gli eventi passati, di proteggerli dalla dimenticanza. Negli ultimi decenni si è assistito ad una riscoperta del romanzo storico, un filone narrativo molto ricco (basti pensare a Vita, di Melania Mazzucco, o Le strade di polvere, di Rosetta Loy, solo per fare alcuni esempi). Sono molte le scrittrici e gli scrittori che vanno a cercare le loro storie nel passato. Che cosa li spinge? Non certo la nostalgia per i tempi andati, ma forse il disagio provocato dalla perdita di una prospettiva storica, il bisogno di trovare un punto di vista da cui guardare al passato, la necessità di scongelare storie dimenticate per reinventarle, trasfigurarle. E così salvarle dall’oblio, restituirle a un nuovo orizzonte di senso, quindi risarcirle del loro potere sovversivo.

 

Luciana Floris

www.ospiteingrato


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