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Aprile 4, 2003
Francesco Abate, controcorrente nel Dna

Francesco Abate, 38 anni, è giornalista professionista per l'Agenzia Unione Editoriale, alle spalle un passato di cronista di nera per "L'Unione". Si divide fra la redazione web e i locali notturni dove si chiama Frisko e fa il dee jay. Quando gli resta tempo scrive romanzi. Ha appena pubblicato il secondo: "Il cattivo cronista", edito da Il Maestrale. Guai a chiamarlo l'ultima sua fatica letteraria. Sì perché Abate, non sopporta il "giornalistese": le vertenze che si inaspriscono, i malviventi che fanno irruzione armati di pistola e col volto coperto, i sanitari che scendono in campo - mai visti i bidet sfilare in corteo - tutto quel gergo che, per strada, ha perso di senso e utilità, formule martoriate dall'uso, ormai solo macchie d'inchiostro dove sempre solo quell'aggettivo o quel verbo precedono sempre solo quel sostantivo. E pazienza se il cronista- inesperto, stagionato, in ritardo con il pezzo o semplicemente stanco- continua a propinarle ai lettori. Parla del suo libro. Protagonista è Rodolfo Saporito, rampollo senza laurea di una blasonata famiglia di avvocati, che finisce a fare il cronista di nera in una città di provincia.

I fatti di cronaca e molti personaggi nel tuo libro sono chiaramente riconoscibili.
"Trovi?"

Il cadavere del travestito sulla spiaggia di Giorgino, ad esempio.
"Sulla cronaca non ho voluto inventare nulla, non ce n'era bisogno: ormai non c'è più il mito di Cagliari solare del Poetto. Il cattivo cronista, che poi è anche il migliore cronista, è quello che sta lì a cercare, stanare i fatti che raccontano da una prospettiva privilegiata quello che si muove nei sotterranei della città".

Come lavori sulla scrittura? L'uso dell'elemento dialettale dà l'idea che ti sia un po' "camillerizzato". Se questo può piacere al cagliaritano vale lo stesso per un marchigiano?
"Mai letto Camilleri. Come lavoro sulla scrittura, non lo so: ascolto la musicalità delle parole. È più una questione di istinto, come quando metti camicia e pantaloni e ti accorgi che non stanno bene insieme. Ho cercato di creare un dialogo serrato e, soprattutto, ritmato. Prima che nascessero Atzeni o Fois, per anni abbiamo dovuto sorbirci il siciliano dei siciliani, e il genovese dei genovesi. Che si becchino ora anche l'eja o il bagassa".

Il cattivo cronista è sbruffone, pieno di sé, senza scrupoli. Eppure il giudizio alla fine è sospeso.
"Non sei mai al cento per cento una brava persona. I lati oscuri sono in tutti, altrimenti finisci sacrificato a San Pietro. Rudy Saporito è un prodotto della sua famiglia, solo ha scelto di delinquere in un altro campo, con un minimo di coscienza in più. I momenti positivi li vive quando fa autoanalisi, quando si accorge di viaggiare per stereotipi, ad esempio, nel rapporto con le donne. Salvo il giorno dopo correre appresso alla stangona bionda".

La cronaca ha una doppia verità, a volte tripla, e i giornali fanno fatica a raccontare. Il rapporto con le fonti ufficiali a volte finisce per trasformarsi in rapporto di fedeltà fra cronista e fonte. È accettabile per il lettore?
"Il cronista vero è specie rara. Più spesso è megafono delle conferenze stampa. Oggi nelle questure c'è l'ufficio stampa. Quando non esisteva, il cronista girava per le stanze, andava negli ospedali. Parlava con l'amico infermiere. La legge sulla privacy ha portato all'appiattimento della notizia. Tutelare la privacy non dovrebbe significare rinuncia all'informazione".

Per il tuo personaggio la provincia è pesante da reggere ma allo stesso tempo porto sicuro. Per Francesco Abate, cos'è la provincia?
"È vero, Rudy è come il re nello stagno. Per me, sì, è un porto sicuro in cui ho le mie dimensioni. È un posto dove non sempre stare ma ritornare. Eppoi questa provincia è molto particolare: autoreferenziale al massimo. Non ricordo chi ha detto che la Sardegna è fatta di tante città-stato. Cagliari stessa vuole essere la capitale di quest'isola ma poi, alla fine, se ne vergogna. Ci sono contraddizioni così forti che alla fine quel che è provincia non lo è più. Le potenzialità si perdono perché poi alla fine ci automutiliamo. Qualcuno dice che Cagliari è un porto messicano. Io penso che sotto i sombreri covino le rivoluzioni".

E l'invidia come sport diffuso? Il parlare sempre e comunque male di tutto e di tutti?
"Sono fortemente vaccinato all'invidia anche se, qualche volta, i calci vanno anche restituiti. L'invidia è per te che riesci a darti una vita felice e io no, per te che fai qualcosa di bello e io no. Invidia è quando il tuo vicino vede le belle piante nel tuo campo e, anziché fare più bello il suo, salta la staccionata e te le sradica"

Il tuo giudizio sui giovani scrittori sardi. Hanno qualcosa in comune che deriva dall'essere sardi?
"La sardità non è un monolite. La mia non è quella di Fois o di Soriga. Ognuno ne coglie un aspetto e la racconta. Io per esempio sono il primo Abate di generazione sarda. Mio padre era nato a Roma ed è vissuto a Torino. Io ho scelto di stare qui".

I ragazzi che Frisko incontra la notte e i giovani di cui parlano i giornali attaccandosi alle statistiche. Qual è lo scarto?
"Totale. L'uso delle statistiche è divertente: un giorno titoli: giovani edonisti. La settimana dopo: giovani introversi. La consolle è un osservatorio fantastico: trovi l'avvocato quarantenne che balla a fianco del ragazzino di diciannove anni. Il popolo della notte non esiste, semmai esistono i clan della notte".

A quale musica associ il tuo romanzo?

"Più di una. Suoni forti e ritmati alternati alla calma piatta. O dance ortodossa o musica ambient"


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