È una strana pianta questo indipendentismo sardo. Produce pochi frutti - intesi come concrete affermazioni politiche - ultimamente amarognoli e con una certa tendenza a spappolarsi o a scindersi che dir si voglia, però sta dando vita a una fioritura ideale e teorica di tutto interesse. Lo scorso anno era stato il semiologo Franciscu Sedda, con il suo "I sardi sono capaci di amare", a scavare nel nostro essere una nazione mancata, studiando i blocchi, le nevrosi, le ansie da prestazione istituzionale che hanno afflitto i padri del sardismo e i loro discendenti.
Ora ad affrontare il tema è Bachisio Bandinu - antropologo e giornalista, già direttore dell'Unione Sarda - con "Pro s'indipendèntzia", che presenterà domani pomeriggio alle 18.00 a Cagliari, all'Hostel Marina di piazza San Sepolcro. Con lui interverranno Sedda, appunto, e Ornella Demuru, protagonisti del recente esodo da Irs che ha dato vita a Sa Costituente. Il libro (10 euro) ha 136 pagine. O meglio ne ha 81 più 55 visto che Il Maestrale lo ha stampato in italiano e in sardo, ma non con testo a fronte bensì double-face: una copertina sarda con testo in limba a seguire e l'altra metà in italiano.
Ma a parte la via tipografica alla parità culturale, il libro di Bandinu ha più di un merito. A cominciare dal tono pacato: una pubblicazione che sostiene l'opzione indipendentista e anzi ambisce a dare radici e basi a uno scenario così radicale, guadagna molto se rinunica alla retorica fiammeggiante da terzomondismo meditteraneo e propone invece un argomentare piano, sereno.
E infatti l'indipendèntzia coltivata da Bandinu non è solo meta di un percorso nonviolento e democratico (e ci mancherebbe) ma parte dalla rinuncia del concetto di "nemico". Il propellente di questo viaggio verso l'autosufficienza politica - esattamente come nella costruzione teorica di Sedda - è la pacificazione con se stessi, l'accetazione della sardità non più come un destino nobile però disgraziato bensì come una condizione da vivere, prima ancora che da rivendicare. Basta col complesso del nano, avvisa l'autore già in apertura, e basta con la voluttà del risentimento. Basta con il "realismo dell'impotenza", con la falsa saggezza di chi rinuncia in partenza all'obiettivo perché troppo ambizioso.
E basta soprattutto, con il collegamento tra l'indipendenza - concetto di per sé solare e positivo, contrapposto a dipendenza - e il sapore traumatico di una parola come "separatismo", che più o meno consapevolmente colleghiamo a una lotta violenta per approdare a un destino di solitudine.
Diviso per concetti in capitoli agili ma densi, "Pro s'indipendèntzia" dà il meglio nell'analisi del bilinguismo mancato e nella panoramica delle servitù - culturali, militari, burocratiche - inflitte all'Isola da un potere centrale effettivamente gelido e alieno.
Certo, può lasciare tiepidi l'idea che la sovranità nazionale dispiegherebbe i suoi effetti benefici più o meno automaticamente (o meglio: più o meno naturalmente) sulla qualità della nostra classe dirigente. Per converso sono molto convincenti tanto l'analisi di come la limba sia stata mozzata per un'operazione di potere violenta e efficacissima - se è vero che ancora oggi viviamo il sardo come idioma marginale, accettabile solo in contesti folk o domestici - quanto il racconto del globale e del locale che camminano a braccetto sulla strada della nostra identità futura, uno sostegno inevitabile dell'altro.
E a proposito di identità, ecco forse il maggiore merito ideologico - si passi il termine - di questo saggio bilingue: l'aver inquadrato la cifra dell'essere sardi come una mistura in continua e vitale ebollizione, diversa inevitabilmente da ieri e da domani. Non una mappa da conservare immutabile in archivio, ma codice genetico felicemente mutante. Un'identità che assomiglia tanto alla "monedita del alma" del verso di Machado che piaceva a Pigliaru, quella monetina dell'anima che "se pierde se no se da". Alla faccia di numismatici e conservatori museali.