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Dicembre 16, 2004
La vittoria dell’amicizia. Due destini opposti raccontati con lingua paziente

La stella più alta che illumina le tante strade su cui s’affaccendano i molti personaggi di Creaturine, il secondo romanzo di Alberto Capitta (il primo, Il cielo nevica, uscì per la Guaraldi nel 1999), è senz’altro quella dell’amicizia. L’amicizia che risolutamente vince, anche quando dovrebbe restare seconda alla passione e al sesso, se proprio non vogliamo parlare d’amore, come nel caso del rapporto tra il maestro Ademaro Grondona e la bambinaia Adelaide Poro: “Da allora in poi, da quel periodo di vita andata a fondo, la loro amicizia includeva anche questo: una stanza di puro desiderio affrescata della più limpida delle tinte, la leggerezza. Così se passavano giorni e giorni, e mesi, senza vedersi, lei non si tormentava affatto, non ci pensava neppure, perché un amico non lo si attende come un amante, non lo si assedia, non ci si ossessiona del suo pensiero, un amico passa da te una sera alle ore più impensate e fa della casualità un tesoro”.

L’amicizia che, però, è qui sotto lente è quella di Rosario e Nicola, due adolescenti che incontriamo appena undicenni all’inizio del secolo appena trascorso, e nelle prime pagine del romanzo, in un orfanotrofio, compagni di tutto, e ignari che molto presto si separeranno. Un’amicizia per così dire aurorale: e che vale come la condizione trascendentale d’un duplice apprendistato alla vita. Capitta, lo dico subito, pare aver giuocato le sue carte su un tavolo filosofico, ma d’una filosofia molto peculiare: quella di Rousseau, e come lavorando su una delle più lancinanti dicotomie che attraversano il pensiero di questo grande, oggi così demonizzato. Tutti sanno quale difficilissimo rapporto tenga insieme due sue opere, il discorso Sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini e Il contratto sociale: se nella prima salvezza e felicità stanno dalla parte dello stato di natura, nella seconda, invece, sono appannaggio della società civile, certo rinnovata dall’unico contratto razionale e giusto fra gli uomini. Che cosa fa, in effetti, Capitta? Sospinge i suoi due personaggi protagonisti vesro due opposti e compiuti destini: l’uno, quello di Nicola, in direzione d’una natura sempre più regressiva e ferale, l’altro, quello di Rosario, d’una sempre più decisa integrazione sociale, che vale anche come una promozione continua. Non dimenticando di leggere – e questo va sottolineato – la vita dei due amici come testi a fronte.

Epperò non sta solo qui, in questa astuta e culta strategia narrativa, la qualità del libro: non avaro, per altro, d’una sua disposizione persino sapienziale, come testimonia anche il frammento sopra citato. Quanto, piuttosto, in una lingua paziente di tutte le sue sfumature, direi quasi certosina, e orgogliosa del suo vocabolario, puntuale e capillare sino al lusso metaforico. Tanto che, se proprio volessimo azzardare un appunto, lo riserveremmo alle detonazioni di qualche metafora che forse andava disinnescata: “Il suo torace nudo era ricoperto di ponti crollati, di relitti, di naufragi”. Ma si tratta di poco: e che salta agli occhi perché va a contrastare il talento d’uno scrittore vero, e in ostinata lotta con la sciatteria e la miseria dei sempre più numerosi manutengoli della nostra lingua.


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