Il romanzo di Alberto Capitta Alberi erranti e naufraghi (Edizioni Il Maestrale, pp. 199, euro 16) di Alberto Capitta è una moderna storia romantica fondata sulle affinità elettive; racconta, infatti, di due giovani che dopo un lungo errare s’incontrano e sono attratti irresistibilmente l’uno dall’altra, così per istinto, senza necessità di parole, superando ogni convenienza e barriera sociale. L’errare consiste, nel caso di Giuliano, in un vagabondare per i luoghi del Nord della Sardegna alla ricerca di un padre misteriosamente scomparso. Per Maddalena invece si tratta di un abbaglio della mente, di un innamoramento cieco per la persona sbagliata, lontanissima da lei per sensibilità e mentalità. L’errare nel suo caso è un errore.
L’intreccio è classico, la modernità entra nel romanzo attraverso il rapporto visionario con la natura, l’immedesimazione con alberi ed eventi atmosferici, la metamorfosi di sensazioni dell’animo ed espressioni corporee in vento, nuvole, pioggia e neve. Per integrarsi però nella natura, per partecipare al pulsare universale occorre un pensiero vergine, che si ritrova più facilmente nelle creature marginali e contemplative. Agli altri non restano che l’alienazione, l’odio o l’indifferenza per la bellezza, il culto dell’effimero e della violenza, dello sfruttamento feroce dell’ambiente e lo spirito autodistruttivo.
Capitta, vincitore del premio Brancati Zafferana per la sezione narrativa, è nato nel 1954 a Sassari, è saldamente ancorato alla Sardegna ma si distingue dagli scrittori che hanno fatto della sardità una cifra stilistica ed esistenziale fondata su un primitivismo di maniera, lo stesso a cui Lawrence aveva dato rilievo internazionale con Mare e Sardegna del 1921, e che non so quanto bene faccia all’isola odierna.
Il suo stile è teso, forte, di quel mimetismo allucinato che descrive situazioni magiche in cui si sente pulsare la natura, in cui un bosco si anima di bambini, a cui allarga le braccia frondose e offre ospitalità, lontani dai disagi della civiltà.
Nel romanzo s’intrecciano le vicende di tre famiglie. Giuliano e il padre, Piero Arca, amano gli animali e vivono in simbiosi con essi, accogliendoli nella loro casa, per accudirli e curarli, organizzando concerti di asini, cani e pecore. Vivono ai margini della città e della società ma ciò non basta ad attenuare lo scandalo della loro condizione, di uno stato di natura estraneo ai canoni della civiltà.
Un giorno Giuliano, rientrando a casa, trova, tutti gli animali sterminati mentre del padre si sono perse le tracce. Da qui l’errare alla sua ricerca tra presente e passato, per strade di fango, per villaggi, città, monti, valli e boschi, trovandosi a suo agio tra gli emarginati, portandosi dietro una sedia, segno di un vuoto da colmare.
Poi ci sono i Branca, il padre ricco notaio, tre figlie tra cui Maddalena, e un’ombra: il suicidio della madre, sopraffatta dal cupio dissolvi.
La terza famiglia è quella dei Nonne: due figli, uno fragile e sensibile amico di Giuliano, l’altro, Michelangelo, ufficiale dell’esercito, deciso e volitivo con la passione per le armi e la guerra. Sono lui e suo padre a fare strage degli animali, e causa della scomparsa di Pietro Arca.
Se c’è primitivismo in Capitta, consiste nel senso magico della natura, nella capacità mimetica del suo linguaggio e del suo stile. Questo è l’unico aspetto per cui si può dire che si colleghi alla tradizione letteraria sarda.
Senso della natura e sentimento della morte incombente, il classico “et in Arcadia ego”, sono i due fili attorno a cui si avviluppano le storie dei personaggi. L’innamoramento, che ricollega i fili sparsi della trama, è solo una sospensione temporanea del dolore e del naufragare universale. Nel nuovo errare, nel cominciamento di una vita rinnovata, Giuliano e Maddalena sanno che l’incanto è destinato a dissolversi.
Salvatore Scalia