Venti anni fa avevamo lasciato Ugolino Stramini esplodere nello spazio profondo in dissoluzione piena del corpo. Prima parola da annotare: corpo. In Giorgio Todde il corpo, la fisiognomica sono elementi di sviluppo narrativo. Era un “lombrosiano fuori tempo”, perché aveva la dote della “osservazione fantasticante, che esercitava soprattutto sulle persone appena conosciute o solo viste per strada. Da pochi segni, verbali e gestuali, ne immaginava la vita”. Lo scrive Giancarlo Porcu, suo editor, e uno dei pochi che possa permettersi di chiamarlo semplicemente Giorgio, senza l’infingimento autocelebrativo di attribuirsi la prossimità con un grande. Anche queste parole le ritroviamo nella nuova edizione della Matta bestialità (Edizioni il Maestrale) con la preziosa prefazione di Goffredo Fofi e il contributo doppio di Giancarlo Porcu (una nota al testo e un ricordo pronunciato a Cagliari il 17 dicembre del 2020, da cui ho tratto il virgolettato).
Gioiello
Ma la nuova edizione contiene anche un piccolo, e inaspettato, gioiello: Temperalapis, il sequel che ci riconsegna dopo due decadi Ugolino. È vivo, si ricompone dopo aver fermato il tempo nel cosmo e quando si risveglia dentro una samsonite non è solo anima o pensiero. È corpo che reagisce alla vita, catabolicamente, urinando. In questo incipit, buio e originale ma complanare al risveglio di Gregor Samsa, ogni molecola compie un cammino inverso alla direzione della entropia e Ugolino si ricompone, ed è in quel ricomporsi che sente il tempo che riparte in un ticchettio che non è solo bastone da passeggio, ma il suono della intera vita che riparte in quel corpo che un tempo aveva avvertito appieno il suo progressivo finire. Sono pagine che grondano di essenza esistenziale, di domande ultime e del “ridicolo della esistenza”: la dissoluzione del corpo e la sua ricomposizione in Ugolino è parallela alla dissoluzione delle parole e alla loro ricomposizione in Temperalapis. La valenza metaforica del postumo incompiuto è fortissima. È metafora della vita che finisce? Quella valigia, quel buio? Quell’incipit che suona come l’epitaffio chi sta per risorgere o sa di andar via?
Troppo facile, consolatorio, scontato, se le parole di Todde copiano la complessità della vita, la celebrano e la sostituiscono. Temperalapis è davvero un ricomporsi dalla morte di un testo da stringhe infinitesimali e poi via via in tratti, lettere, parole e pensieri, parten«do dalla sfida di un finale illusoriamente chiuso che invece si riapre, e tutte le parole scendono, come la sigla di Matrix, dal quel cielo, dove sono rimaste per venti anni e si ricompongono, una dietro l’altra, in forma perfetta e al contempo in-terminata, e ormai interminabile. Si fotta la morte. Non ferma la ideazione.
Genesi
Leggerete la genesi del postumo nelle note di Giancarlo Porcu e potrete capire come pensasse, come esistesse e dunque come scrivesse Giorgio Todde. Temperalapis non è un romanzo incompiuto perché ogni capitolo che la morte ha risparmiato ha la sua assoluta compiutezza stilistica di un plesso di pensiero forgiato e cesellato secondo perfezione, perché su di esso non si debba più tornare, perché la storia era già tutta scritta e pensata nella mente di Giorgio Todde, anche nella parte che ci manca. Quella mente è come quel cosmo che conteneva ogni molecola di Ugolino Stramini e che ha fermato il tempo, ma è anche la valigia samsonite che ri-partorisce Ugolino nudo e perfetto. È un romanzo interrotto, che canta una grandezza e nel farlo ci illude un po' sì e un po' no, perché solo ciò che finisce, che termina, dimostra la ineluttabilità di un tempo lineare. Ma è ciò che Ugolino Stramini sa di aver smentito: non esiste tempo, disordine, entropia, finché l’in-terminata rimane tale perché se la dissoluzione senza morte volteggia nel cosmo è ancora possibile fermare il tempo. L’infinito è appunto la negazione della finitezza assassina del tempo. Incompiuto, interrotto e infinito stanno sulla stessa retta, di cui Temperalapis è un punto che a sua volta si apre in un esplosione simile a quella che ci aveva sottratto momentaneamente Ugolino Stramini e a quella, bastarda, che ci ha definitivamente rubato Giorgio Todde.
Mauro Pusceddu