Nato cinquantasette anni fa a Carfizzi, paesino arbëresh della provincia di Crotone, trapiantato prima in Germania poi in Trentino. Carmine Abate, scrittore prima di tutto e insegnante part time di italiano in una scuola media, non è uno di quegli emigrati “schiacciati” dalla nostalgia del paese natio. Lui ha imparato a «vivere per addizione». Come? Scrivendo.
La sua storia, da ragazzino calabrese che ha subìto lo sradicamento dalle sue origini a uomo che non vive più la lontananza come una ferita, è una sfilza di titoli da snocciolare perché passa attraverso le pagine dei suoi libri. Proprio l’espressione «vivere per addizione» è il titolo di una raccolta di racconti uscita recentemente negli Oscar Mondadori, Vivere per addizione e altri viaggi, una narrazione autobiografica in cui lo scrittore racconta il suo peregrinare tra l’Italia e la Germania. Un peregrinare che non è però riuscito a cancellare il suo accento arbëresh, “coltivato” anche attraverso i continui ritorni in Calabria. Proprio a settembre scorso, Carmine Abate è stato qui per l’assegnazione del Premio Crotone. Premiazioni, inviti, presentazioni di libri che lo riportano spesso nei luoghi dell’infanzia, ma a richiamarlo è soprattutto il legame forte con la sua terra. «Torno ogni estate per circa tre mesi, con la mia famiglia». Una moglie, tedesca, e due figli, nati in Germania e cresciuti in Trentino, ma che hanno ereditato il grande amore per la Calabria. «Quando vengo in vacanza non la vivo come un turista – racconta –, mi ci butto a capofitto».
L’esordio di Carmine Abate avviene nel 1977 con un libro di poesie, Nel labirinto della vita, ma la sua carriera di narratore sboccia in Germania, dove, dopo la pubblicazione di alcuni racconti su riviste tedesche, nel 1984 esce la raccolta Den koffer und weg! (La valigia e via!). Il legame con la Germania, nato quando a 16 anni cominciò a lavorare con il padre in fabbrica e nei cantieri stradali, non si è più spezzato. «Ho cominciato a scrivere con rabbia e per rabbia - racconta -. Volevo denunciare le condizioni di vita dei “germanesi”, l’ingiustizia dell’emigrazione». La storia dell’emigrazione italiana all’estero è la stessa storia della sua famiglia. Suo padre partì alla fine degli anni ’50 per andare a lavorare in Francia e poi in Germania e prima ancora fu suo nonno a dover lasciare la terra natia per l’America. Un mondo, quello degli emigranti, caro ad Abate che non si limita a raccontarlo, lo indaga, lo rende universale. I Germanesi, spiega, rappresenta nel suo percorso «un passaggio fondamentale». Si tratta di una ricerca socioantropologica, uscita sempre nel 1984 in Germania (l’ultima edizione è stata pubblicata da Rubbettino), svolta assieme a una giovane studiosa tedesca, Meike Behrmann, la donna che oggi è sua moglie. Uno studio sul campo durato quattro anni tra Carfizzi e la Germania. «È stato un lavoro importante perché mi ha permesso di acquisire uno sguardo nuovo sui miei luoghi d’origine - dice Abate -. Ho unito il mio sguardo “interno” a quello di una persona che aveva uno sguardo “esterno”. Ne è nato un “doppio sguardo” che è stato fondamentale per scrivere i romanzi successivi».
Il primo romanzo esce in Italia nel 1991. È Il ballo tondo, che arriva sugli scaffali delle librerie senza troppa fatica. «È stato più semplice di quanto pensassi - racconta Abate -. Lo avevo mandato a due editori ed entrambi lo volevano. Alla fine l’ho dato al primo che mi ha fatto il contratto, Marietti di Genova». I riscontri non tardano ad arrivare. Alcuni critici lo paragonano addirittura a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Un paragone che lo scrittore di Carfizzi definisce «esagerato», se non altro perché «è stato accostato il realismo magico dei sudamericani a qualcosa che invece esisteva davvero nei luoghi che io narravo». Esagerato o no, quel che è certo è che dai primi riconoscimenti Carmine Abate non si è più fermato. Nel 1996 è la volta di Terre di andata, un libro di poesie (riproposto quest’anno con nuove aggiunte di “proesie” da Il Maestrale). Tre anni dopo, nel 1999, esce La moto di Scanderbeg, che suscita un grande interesse e viene definito dalla critica il miglior romanzo dell’anno. Un lavoro in cui, peraltro, lo scrittore comincia a utilizzare tutte e tre le sue lingue: l’arbëresh, il calabrese e il “germanese”. Il successo non si ferma e anzi esplode nel 2002, con il romanzo Tra due mari, che frutta ad Abate diversi premi. «Nell’arco di una settimana mi era stato richiesto da sei editori, alla fine ho deciso di pubblicarlo con Mondadori». La stessa casa editrice, da allora, comincia a riproporre anche i lavori precedenti. Non solo. A partire dal 2000 i suoi libri sbarcano all’estero, e non solo in Germania. Vengono pubblicati in tedesco, francese, inglese, olandese, portoghese, greco, albanese e finanche in arabo, come successo di recente per La festa del ritorno, romanzo che negli Usa è risultato tra i primi cinque libri più venduti, tradotti dall’italiano. Il segno, afferma Abate, che «il mio lavoro viene riconosciuto come universale, pur raccontando la Calabria e il mondo arbëresh, mentre all’inizio mi dicevano che i miei erano temi di nicchia».
E poi c’è da dire che Carmine Abate, grazie ai suoi racconti, è cresciuto. «Dopo aver narrato la ferita della partenza, viaggio dopo viaggio, libro dopo libro, mi sono reso conto che l’emigrazione può anche essere vista come una ricchezza. Non mi sento sradicato, curo le mie radici originarie e nello stesso tempo curo le nuove, che sono altrettanto importanti». Ed ecco cosa vuol dire “vivere per addizione”: non dover scegliere tra Nord e Sud, tra più lingue, tra più culture, ma vivere tutto assieme. «L’emigrante tradizionale viveva con i piedi al Nord e la testa al Sud - dice -, il nuovo vive con un piede al Nord e uno al Sud e la testa ovunque». Così è Carmine Abate, che i “suoi luoghi” li vive tutti assieme. Dopo aver fatto per anni la spola tra Italia e Germania, nel 1993 ha preso in mano una cartina geografica e ha “calcolato” il posto in cui stabilirsi: il Trentino, «perché è a metà strada tra Amburgo e Carfizzi», spiega. Le sue due terre, così, sono entrambe a portata di mano. E, certamente, di penna. Una penna che in questo momento è all’opera su un nuovo romanzo, ma la trama rimane un segreto fino all’uscita, prevista in primavera. Intanto ci sono i successi presenti. Proprio Vivere per addizione e altri viaggi, giunto alla quarta edizione, è tra i vincitori del premio Città di Offida–J. Lussu. Un riconoscimento significativo, per un libro di racconti, il cui titolo è per Abate un vero e proprio manifesto di vita.
Con la Calabria, racconta, ha un «rapporto passionale». «Nei miei libri c’è sia la memoria sia il presente - afferma -. Cerco, libro dopo libro, di narrare la complessità di questa regione, le spine e i fiori, insomma gli aspetti negativi ma anche quelli positivi, evitando i luoghi comuni più nefasti ». Ed ecco che i temi si moltiplicano. C’è la ’ndrangheta, certo, ma ci sono anche il lavoro, le lotte quotidiane, il mistero, l’amore, la costante ricerca delle proprie radici. Quella stessa ricerca che ha impegnato e appassionato Carmine Abate per tutta una vita. E che però non è riuscito a stritolarlo nella morsa della nostalgia. «Parto dalla memoria per arrivare a rappresentare e capire il presente; la memoria per me non è qualcosa di nostalgico, ma qualcosa che possa servire a vivere meglio il nostro tempo, a illuminarlo. Per dirla con Elias Canetti, che ha definito lo scrittore “custode della metamorfosi”, io mi sento custode di una memoria che si trasforma».
Quella memoria che Carmine Abate ha portato con sé nel suo girovagare lungo anni. Un viaggio di sola andata che al momento si è fermato in Trentino, dove vive senza la smania del ritorno, perché la Calabria e la Germania, le sue terre, le vive per addizione.E quello che per lui è stato una conquista è invece un atteggiamento innato nei suoi figli, che parlano due lingue. Uno dei due ora studia in Germania. «Loro vivono spontaneamente per addizione », dice. Come tanti ragazzi di oggi, che al legame per le origini uniscono la voglia di respirare nuove realtà. Che è l’invito che fa Carmine Abate in una poesia intitolata “L’eredità”, quello di vivere «consapevolmente» l’Europa e il mondo. «Perché il pedaggio l’ho pagato io». Ho cominciato a scrivere con rabbia e per rabbia Volevo denunciare le condizioni di vita dei “germanesi”, l’ingiustizia dell’emigrazione che avevo vissuto in prima persona. Dopo aver narrato la ferita della partenza mi sono reso conto che l’emigrazione può essere vista come una ricchezza Non mi sento sradicato, curo le radici originarie assieme alle nuove.»”