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Dicembre 8, 2004
Peppinu Mereu, poeta scapigliato della lingua sarda

Non vorremmo scomodare parole troppo impegnative, ma riteniamo con sobrio convincimento che, per la recente edizione critica delle poesie complete di Peppinu Mereu, a cura di Giancarlo Porcu e con traduzione italiana di Giovanni Dettori, Marcello Fois, Alberto Masala (Il Maestrale, 2004), possa utilizzarsi serenamente l’espressione di “evento letterario”, rispetto al contesto culturale non soltanto isolano. Anzitutto perché l’autore, uno dei dioscuri della moderna poesia in lingua sarda con Montanaru, è personalità di tale rilievo nella letteratura regionale da prefigurare comunque presso i lettori un orizzonte d’attesa sufficientemente ampio; in secondo luogo, perché qui si tratta di un’iniziativa editoriale dove si vede tradotto un poeta non da operatori del mestiere bensì da altri poeti e scrittori, tutte e tre figure di sicuro prestigio nell’ambito letterario nazionale; in terzo luogo – e questo è forse il punto determinante – perché da questo libro si intuisce chiaramente quanto la poesia di Mereu sia, e la traduzione conferma ed avvalora una tale impressione, la migliore riprova del lume di una civiltà delle lettere che riverbera il suo raggio ben oltre i confini di un ristretto mondo dal respiro locale. Per cui, insomma, può dirsi che non solo la Sardegna si dimostra in questo modo pienamente inserita e integrata in un discorso di pari dignità culturale col resto della Penisola, ma che la stessa letteratura italiana si arricchisce in qualche misura e si specifica, estendendo ulteriormente il suo spettro luminoso e allargando il proprio patrimonio storico anche grazie al contributo della componente sarda, che ne diventa così parte costitutiva essenziale. Sarà pur vero infatti, come afferma Franco Brevini, in una valutazione retrospettiva dei fatti calibrata sull’asse temporale, che “difficilmente la Sardegna a causa della sua peculiarissima storia, segnata dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia letteraria rigorosamente nazionale”, ma crediamo che questo libro, proprio in relazione al suo e al nostro tempo, dimostri esattamente il contrario. Dimostri cioè, a ulteriore conferma di quanto autorevoli studiosi della nostra regione hanno già riconosciuto: e cioè che l’epoca di Mereu e Montanaru è quella dove si registra la maggiore prossimità e vicinanza della cultura sarda a quella italiana; dimostri – dicevamo – che il piano di riferimento privilegiato dell’opera poetica di cui ci stiamo occupando, oltre che con la tradizione popolare isolana, non può, a rigore, non identificarsi in misura nettamente preferenziale se non con la cultura e letteratura italiane, cioè non può non inserirsi in un discorso di storia letteraria nazionale. La riproposta critica e la traduzione di queste poesie complete, dunque, non solo rappresentano un’operazione alta nel panorama isolano, ma illustrano quanto il disegno del mosaico culturale del nostro Paese sia a ben vedere variegato e sostanzioso. Ciò ci autorizza appunto a parlare di un “evento letterario”: vale a dire di una raffinata operazione editoriale dall’incidenza non soltanto locale bensì proprio nazionale, di ulteriore comune arricchimento del quadro generale. Ma chi era Peppinu Mereu? Il suo nome viene di solito associato a quello forse più noto di Montanaru (ma oggi, dopo questa bella edizione maestralina delle poesie edite i inedite, saremmo quasi tentati di parafrasare quel verso dantesco sopra la fama: “Credette Montanaru nella poesia/tener lo campo…”). In realtà, la sua giovane vita prematuramente stroncata dalla malattia, e il numero esiguo di ristampe della sua opera ha fatto sì che oggi lo si ricordi magari meno del conveniente e del necessario. Mereu è invece autore intrigante, anche per la sua figura e la sua fama di poeta “maledetto”, di predestinato, di “scapigliato” di villaggio, anticonformista, dissacratore, autodidatta, pauvre escolier. Perfino di socialista utopista e populista, ma anche e soprattutto disorganico e libertario. Non fu cioè, il nostro, quell’ “intellettuale organico alla società barbaricina” (almeno non nel senso convenzionale) che Francesco Masala tempo addietro ha ravvisato in lui, perché egli è e rimane uomo di fratture individuali ed esistenziali, che presagisce fermenti nuovi (ideali, sociali, e culturali). In verità era un temperamento angelico, dalla sensibilità acuta e squisita, dall’animo puro. La sua vita fu povera di avvenimenti quanto ricca di sofferenze, al punto da costringerlo, nell’ultimo inverno della sua esistenza agra, addirittura a utilizzare i fogli delle proprie poesie per accendere il misero fuoco. Ammirevole, in tanta devastazione biografica, la sua capacità di preservare comunque l’ironia e la grazia interiore. Ma l’aspetto che oggi più colpisce la coscienza dei lettori è la “modernità” del suo tratto intellettuale. Mereu è a tutti gli effetti un uomo di umile estrazione provinciale, che ha trascorso l’intera vita in ambienti paesani, è un autentico sardo delle “zone interne”; eppure, al contempo, è un fine letterato dalla coscienza infelice e risentita, ben consapevole di possedere non comuni competenze oratorie e di arte retorica, uno che frequenta gli autori classici e moderni, che cita con familiarità il Petrarca, il Foscolo, il Giusti, che conosce evidentemente i poeti romantici e quelli della Scapigliatura, lo Stecchetti in particolar modo, e che non ignora nemmeno gli stranieri di rango, probabilmente lo stesso Baudelaire. Così come non è estraneo, del resto, al gusto e all’ambiente dei poeti corregionali in limba, che in qualche maniera possono essergli congenialmente accostati, e che a Nuoro avevano formato una sorta di cenacolo rustico e dotto, “altalenante – come annotava ancora, questa volta felicemente, Francesco Masala – fra il positivismo, l’ironia sociale e la follia alcolica de sos iscopiles”: alludiamo ai poeti cosiddetti di Su Connottu, primo fra tutti il considerevole Pascale Dessanai. Così pure sarà da tenersi in conto la frequentazione da parte di Mereu dei poeti estemporanei, dei poeti di piazza, e il suo debito nei loro confronti. Il nostro stesso autore d’altronde fece parte di quella eletta schiera. Ma Peppinu li sopravanzava tutti di gran lunga, per una più scaltrita e sofferta “modernità”, per una più alta personalità poetica. Va pure detta un’altra cosa a proposito di questa singolare “modernità”, e che fa di Mereu uno dei principali interpreti e levatori del “nuovo”, anche attraverso la sua stessa invenzione e sperimentazione linguistica dell’italiano “porcheddino” (un saporoso quanto oltranzoso italiano regionale). A fine-inizio secolo numerosi paesi della Sardegna interna conobbero davvero una sorta di risveglio rusticamente “borghese”, che li ingentiliva e li rendeva più dinamici e aperti; la decadenza, l’abbruttimento e il degrado sarebbero venuti dopo: appartengono infatti alla dura realtà dei nostri giorni (giorni che non hanno saputo sviluppare quei semi di modernità che erano in nuce, ma che hanno visto al contrario gli animi e i costumi arroccarsi in un assurdo fondamentalismo “resistenziale” e “alternativo” oppure nel silenzio rinunciatario). Nella sua sostanziosa e penetrante postfazione il curatore del libro, Giancarlo Porcu, appoggiandosi su puntigliosi apparati critici, mette bene in luce il problema filologico-letterario ma anche antropologico della definizione dello stile di Mereu all’interno delle categorie classificatorie della poesia popolare e dialettale. Porcu opta, sulla scorta di puntuali riferimenti alle analisi di Cirese e Brevini, per una definizione della poesia di Mereu in quanto “poesia tradizionale”, intendendo così una “terza via”, intermedia tra la dialettalità e la nazionalità (se così possiamo dire): in buona sostanza, una sorta di “via sarda” alla “differenza”. Ci sentiamo di condividere una tale formula, a condizione che con essa si evidenzi come Mereu (al pari di Montanaru del resto) possedesse una visione dell’identità linguistico-letteraria più avanzata e matura, più aperta rispetto a quella che si sarebbe di fatto instaurata nella pratica compositiva dei poeti successivi di più ostinata ispirazione o tendenza sardistico-nazionalitaria. E ciò ancora una volta avvalora il concetto, già accennato, che il cammino culturale isolano avrebbe assunto nel corso del secolo una curva recessiva rispetto alle aperture e integrazioni presagite nella stagione primonovecentesca, le quali facevano intravedere sviluppi piuttosto diversi. Il poeta di Nanneddu Meu, di Galusé, del proprio Testamentu, di Minca macaca, di una Losa ismentigada è una personalità decisamente anomala rispetto alle formule risapute della musa in limba, eppure è voce poetica quanto mai rispondente, nell’intimo, alle più urgenti e segrete pulsioni e tensioni dell’essere e del sentire sardi. Come a dire che qui incontriamo un poeta dalla forte e autonoma cifra individuale e, al contempo, una sintesi veritiera di una vasta coscienza collettiva. Un’ultima parola resta da dirsi sulla traduzione di Giovanni Dettori, Marcello Fois e Alberto Masala. La quale è senza ombra di dubbio o riserva classificabile nella schiera delle “belle e infedeli”, tenendo conto del fatto che è traduzione effettuata nel segno del rigoroso rispetto della metrica, della rima e del ritmo. Non per niente essa si rivela, più di una volta e a più riprese, generosa dispensatrice di soluzioni stilistiche davvero geniali sul piano interpretativo. Una mano felice ha guidato i tre traduttori: i quali hanno operato indipendentemente l’uno dall’altro, nella ripartizione delle rispettive competenze, in modo egregiamente omogeneo e tale da aggiungere, se possibile, ulteriore bellezza al verso originale.


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