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Novembre 16, 2002
Ritratto dello scrittore da giovane

Il libro che stiamo per illustrarvi sarà salutato sicuramente con favore degli appassionati di letteratura contemporanea, e in particolare dagli estimatori di Sergio Atzeni. Di lui esce in questi giorni presso le edizioni del Maestrale un nuovo libro postumo (come si ricorderà lo scrittore è perito tragicamente nelle acque di Carloforte nel settembre del 1995).

Autore in buona parte postumo (alcune delle sue opere più significative sono apparse dopo la sua morte: “Passavamo sulla terra leggeri”, “Bellas mariposas”, “Raccontar fole”, e la raccolta poetica “due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo”); autore in buona parte postumo – dicevamo – ha saputo o avuto in sorte di unire alla dote del pregio letterario il fascino romantico del poeta scomparso prematuramente.

La casa editrice Il Maestrale, che si è distinta in questi anni per aver operato felici scelte editoriali, accompagnate da un successo non effimero (tra l’altro è l’editrice di alcuni tra i protagonisti dell’attuale fucina narrativa isolana: come Marcello Fois, Giulio Angioni, Salvatore Niffoi, Giorgio Todde, Luciano Marroccu, Flavio Soriga); la casa editrice nuorese – dunque – pubblica ora una raccolta dei primi racconti editi (ma anche inediti) dello scrittore Sergio Atzeni, personalità fra le più interessanti del panorama letterario non solo regionale di fine millennio, e capofila in qualche modo del piccolo ‘rinascimento’ della narrativa sarda che si è determinato appunto negli ultimi venticinque anni. A questo proposito può essere opportuno notare come il caso Atzeni segni un momento di svolta nell’evoluzione della narrativa sarda del secondo Novecento: Prima di lui infatti scorgiamo soprattutto figure tutto sommato abbastanza isolate, grandi massi erratici, monumenti più o meno augusti: come la Deledda, Dessì, Cambosu, Lussu, Fiori, Satta, lo stesso Ledda in qualche modo. Dopo di lui invece è dato di vedere, rispetto all’erraticità della condizione precedente, la presenza progressiva di un vero e proprio ‘sciame’ letterario: vale a dire, una nuova stagione della letteratura isolana, la quale si colloca appieno questa volta con continuità, pur nella sua specificità, dentro il discorso letterario nazionale.

Ora, se la narrativa del Novecento è contraddistinta – secondo una riassuntiva formula di Walter Pedullà – da “i linguaggi bassi, il plurilinguismo, l’informale, la narrazione polifonica, la deviazione dalla norma, lo straniamento, la leggerezza, la corporalità, la scrittura ad alto tasso metaforico, l’antirealismo che meglio narra la realtà”; ebbene dobbiamo riconoscere che l’opera di Sergio Atzeni vi si inserisce a pieno titolo ed emblematicamente.

Il libro, che racchiude queste prove giovanili di Atzeni (siamo agli inizi degli anni Ottanta, anni “sputtanati” per taluni, e tuttavia anni d’incubazioni e fermenti) è curato – ci piace sottolinearlo – da Giancarlo Porcu con passione, rigore, puntigliosità. Esso comprende, tra le altre cose, i “tre racconti in giallo” con “colonna sonora” (il suo autore li definiva autoironicamente “raccontini”) apparsi a suo tempo sulla rivista underground “Orient Express”, un “quarto racconto” giallo sempre con “colonna sonora”, i brani narrativi dello stesso genere “L’uomo nuovo ritmenblùs”, “Era Aprile”, Ancora la città, i canali”, e il racconto “Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco”, testo proposto da Atzeni alla giuria del Myfest di Cattolica nel 1981, giuria della quale faceva parte uno dei più affermati e popolari autori del genere poliziesco italiano: Loriano Macchiavelli. Fra Atzeni e Macchiavelli si svilupperà poi un interessante scambio epistolare, pubblicato anch’esso nel volume.

La particolarità di questi “raccontini”, accennata dallo stesso Atzeni nel suo carteggio con Macchiavelli, è che si tratta appunto di “racconti con colonna sonora”, cioè corredati dall’indicazione di uno o più brani musicali, di cui il testo letterario vorrebbe essere una sorta di “commento”.

L’espediente non è nuovo nella letteratura, specie contemporanea: basti pensare addirittura a certi titoli emblematici, come “Variazioni per un sax”, del saggista e narratore spagnolo Antonio Rodriguez Almodovar. Bisogna però dire che Atzeni mette in pratica l’artificio in maniera straordinariamente personale e persuasiva.

Il genere di musica che gli procura lo spunto e insieme la suggestione è costituito dalle forme musicali più care all’immaginario della cultura giovanile: come il rock, il rhytm ‘n’ blues, la pop music, il jazz. Diamo un assaggio delle preferenze dell’autore, riportando la sua premessa al primo racconto: “Il brano è I Zimbra dall’album The name of this band is Talking Heads. Suoni africani, voci umane fra i computer e il discosound. Tessuto poliritmico veloce e ossessivo. Spazi di sola percussione. Finale in crescendo, violento. Ripetizioni ossessive scandite da tempi esatti e perfettamente “quadrati”. (Manu Dibango: “la quadratura del ritmo, viene dall’Africa”). Mi ha regalato un’immagine notturna, abitata da un monomaniaco…”.

Nella “dichiarazione generale” dell’autore preposta ai propri racconti leggiamo queste preziose avvertenze: “Ogni musica, evoca immagini. Le immagini non sono le stesse per tutti. Ognuno di noi ha, ovviamente, le proprie immagini, che dipendono da molti fattori: livello di concentrazione sui ritmi della musica, tipo di compagnia, ricordo sgradevole e improvviso del maledetto capufficio, vicinanza di bambini rissosi, martello pneumatico nella strada sotto casa, non eccelso livello di cultura musicale…mi sarebbe piaciuto fare il conservatorio”. E ancora: “Una lettura ‘buona per tutti’ di un brano musicale, mi pare impossibile. Sfido, però, a immaginare bambini che sorridono mentre si ascolta For Harry Carney di Mingus. O l’immobilità di un pomeriggio in campagna, senza né vento né rumori, con Lulù di Enrico Rava”.

Anche soltanto da queste parole introduttive si misura quanto Atzeni dimostri la consapevolezza propria di uno “scrittore di razza” (il giudizio è di Ernesto Ferrero). Uno scrittore – come poi rivelerà appieno la figura di Ruggero Gunale, palesemente autobiografica, del Quinto passo è l’addio – “sempre in fuga da se stesso” (citiamo ancora Ferrero), diviso tra “orgoglio e utopia”, “disadattamento e etnia”, e soprattutto (la cosa è importante in quanto emerge anche da questi giovanili racconti) “senza compiacimenti o indulgenze per i suoi personaggi”. Insomma: “uno scrittore di razza, tra i pochi che abbiano qualcosa da dire, tra i pochissimi che sappiano come dirla”.

E in fatti si può penetrare già attraverso questi “racconti con colonna sonora” all’interno del laboratorio atzeniano, per vedervi sperimentata in forma ancora timida ed embrionale quella che poi sarà la sua particolarissima lingua meticcia (ancora non ci trovi il rutilante impasto espressivo dell’ Apologo del giudice bandito, tutto giocato tra un italiano, uno spagnolo e un sardo d’invenzione, ma vi è già presente una sorta di bizzarro italiano regionale, così come viene catturato attraverso la parlata degli strati bassi e popolari del luogo); una lingua particolarissima e meticcia, che colloca di diritto il nostro Sergio nel filone di una letteratura d’ispirazione demotico-espressiva d’autore, rappresentata più o meno nello stesso periodo notoriamente da scrittori di vaglia, come Consolo o Camilleri.

Anche da questi primi tentativi, o meglio esperimenti, il lettore attento potrà notare, e magari degustare, uno strano effetto di “interferenza” accoppiata ad una tensione di “progettualità”, che giustamente il curatore del volume, Giancarlo Porcu, riconduce all’‘estetica aperta di Atzeni’.

Pure sotto questo profilo Atzeni sembra un rappresentante di una cultura per certi aspetti di tipo “post-coloniale”, che al tempo stesso possiede però tutti i caratteri propri di uno scrittore illustre, nazionale, cardinale. Il fatto è che il suo segreto è lo stile. Lo stile dell’identità. Cosa ben diversa dalla mania dell’identità o dall’identitarismo: Questo stile è il suo fattore d’eccellenza, al quale egli pare aver consacrato tutte le energie.

E’ un vero e proprio ossimoro plurale quello che si avverte nelle migliori pagine di Sergio Atzeni: che potremmo definire come una affabulazione brachilogica, un modo fulminante ed ellittico di indugio narrativo, che lo contraddistingue. Una narrazione la quale evade dalla dicotomia obbligata di certa posizione cara alla nostra letteratura d’attitudine sociale, spartita tra ruralismo e operaismo. Narrazione che tratta una realtà, una materia urbana e suburbana d’ambientazione regionale (ma in fondo universale), narrazione che fino ad allora aveva avuto prevalentemente e continuava ad avere nell’isola, il suo fulcro o fondamento all’interno del mondo agro-pastorale.

Ebbene, Atzeni ci introduce alla Sardegna di oggi, una Sardegna già inserita in una condizione “moderna” (o se preferite ancora pre-moderna ma al tempo stesso post-moderna, dai tratti appunto “post-coloniali”). In che modo? Grazie appunto al suo stile, alla sua personalità scritturale, degni di un autore che non soffre di complessi d’inferiorità (né superiorità), ma è profondamente integrato in una cultura che è insieme sarda, italiana, europea ed internazionale.

Allora, per riassumere la questione con una nota formula: “genio e sregolatezza” oppure “genio e regolatezza”?

Atzeni è stato entrambe le cose: una sorta di atipico clerico vagante di fine millennio, che riassumeva in sé la straordinaria antinomia della trasgressione e dell’amore per l’ordine formale e quasi la moralità della pagina e del testo.

Una narrativa ed una personalità, le sue – se possiamo tentare una similitudine meteorologica attraverso le immagini più idiosincrasiche del nostro autore – modellate, lavorate dal vento; che oscillano aritmicamente e temporalmente tra lo scirocco e il maestrale: fra l’umido e il secco, il caldo e il freddo. Ed è proprio questo ossimoro narrativo che fa in verità del suo realismo una sorta di strana metafora dell’immaginazione, di lucido miraggio. Che fa di Atzeni forse il più poetico, il più lirico, il più mistico e visionario dei nuovi scrittori realisti sardi, e con una fisionomia particolarmente rilevata fra quelli italiani e non solo. Sarebbe però operazione incauta e posticcia, soprattutto non rispettosa della sua memoria, se si facesse di lui nella sua isola l’esemplare di una “specie protetta”, un cosiddetto “autore generazionale di culto”.

 


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