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Novembre 1, 2013
Sardegna magica ma senza folklore

Un romanzo certo non cambia la vita, ma può cambiare lo sguardo sulle cose. Succede con Alberi erranti e naufraghi di Alberto Capitta, un libro originalissimo che rischia di restare sommerso sotto le tante novità editoriali. Libro originale perché ci fa vedere le cose che racconta. Non solo la natura dal tratto meraviglioso, boschi, ruderi, piante rampicanti, mare, vento e una selva di infiorescenze che avvolgono perfino le parole. Non solo uomini e donne piene di grazia e di follia, che poi sono le creature irrequiete evocate dal titolo. Ma lo scrittore riesce a rendere visibili perfino le emozioni più nascoste, passioni, perdite, lutti, dolori, pensieri, che vengono rappresentati con una singolare fisicità.

Nel registro fantastico di Capitta la felicità è una polverina sparsa ovunque, in ogni stanza della casa poi immersa nell’ombra. Tracce di amore tra i corridoi, le scale e i ripostigli e poi nella ghiaia del giardino. Una polvere impalpabile, che va cercata sotto stratificazioni di dolore provocate dal volo d’una moglie amata. Ma anche il disamore, in una famiglia segnata da protervia e violenza, può avere la forma di una creatura agonizzante, «nudo sul pavimento e sporco di rose schiacciate». Succede all’improvviso. La sposa lo vede cadere a terra davanti ai suoi occhi, nel momento in cui la vita coniugale le si disvela in una irredimibile miseria.

Siamo entrati nella favola visionaria di uno scrittore tenacemente lontano dai riflettori. Si chiama Alberto Capitta, ha 59 anni, è nato a Sassari e viene dal teatro. Là ha imparato il silenzio, la concentrazione, la capacità di evocare l’invisibile partendo dal dettaglio. Qualità che esercita anche nella pittura, molto presente nel suo lavoro di scrittore. Non gli è certo estraneo il realismo magico degli scrittori sudamericani, incrociati nei lunghi viaggi in America Latina. E non gli è estranea la vena surreale che si ritrova in certi racconti di Tommaso Landolfi. Da ragazzo è rimasto molto colpito da Swift, anche se dall’autore di Gulliver eredita gli spunti fantasiosi ma non la malizia. E l’affinità con la Ortese l’ha scoperta dopo aver scritto il suo primo romanzo, Creaturine, che ne anticipa il singolare impasto linguistico.

In Alberi erranti e naufraghi, ora premiato con il Brancati, Capitta racconta una Sardegna senza tempo, sicuramente riconoscibile ma spoglia del tratto folclorico e identitario che sembra marcare altre esperienze letterarie. Ammesso che la categoria possa avere un senso, forse Capitta è il più sardo di tutti – per la compenetrazione tra umano e vegetale, tra paesaggi e sentimenti – ma resiste alla tentazione di “fare” il sardo con tutto il corredo di “pattade” e muretti a secco che il fortunato canone dell’esotismo comporta. E soprattutto evita di chiudersi nel sardocentrismo, elevando l’isola a metafora dei conflitti del mondo. Quasi tutti i suoi libri sono stati pubblicati dal Maestrale, un editore di Nuoro che ha svolto un ruolo importante per la narrativa in Sardegna. Ora quest’ultimo Alberi erranti e naufraghi ha avuto un recensore entusiasta in Goffredo Fofi, che l’ha definito un romanzo prezioso del «più originale dei nostri scrittori».

Capitta racconta storie di disincanto e di abbandono. I suoi personaggi migliori appaiono creature ferite, condannate alla solitudine, in una curiosa immedesimazione con il mondo animale. Qui viene narrata la vicenda di tre famiglie molto diverse – tra lo sperdimento degli Arca, vocati alla cura ossessiva delle bestie (non casuale il nome biblico), l’amorevole tradizione borghese dei Branca, segnata dalla perdita di una donna molto amata, e l’arroganza militaresca dei Nonne, che conduce alla consunzione il figlio più fragile. Famiglie lontane ma intrecciate da un destino sentimentale imprevedibile. Al centro della narrazione è la storia d’amore tra Giuliano Arca e Maddalena Branca, che è anche la storia di un’impossibile armonia con il creato. Sono loro “gli alberi erranti” del titolo, all’inseguimento di un nuovo approdo che viene sempre negato. Perché – sembra concludere l’autore – per chi aspira a integrità e purezza non può esservi pace. Non lo dice, Capitta, però lo mostra. Piante che camminano, alcune ricurve, altre legate sulle spalle dei tronchi. Aranci in movimento, in una marcia che non ha mai fine.

 Simonetta Fiori


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